“Ora che la ricostruzione è partita, ci si accorge che non basta ‘ri-costruire’. Occorre, ancor prima, ‘costruire’ un nuovo rapporto tra l’uomo e l’ambiente: non limitarsi, cioè, a riprodurre le forme del passato, ma lasciarsi provocare dalla natura, che è creativa e aperta al futuro. Non un nostalgico recupero della dimensione bucolica, ma un progetto di investimento economico e di sviluppo demografico, rivolto ad una parte dimenticata del nostro Paese, che era tale ben prima del terremoto del 2016. Non abbiamo bisogno di nuovi presepi ma di piccoli centri attivi”. Lo ha detto mons. Domenico Pompili, vescovo di Rieti, che oggi ad Amatrice ha celebrato la messa per il quinto anniversario del sisma del 2016. Per il presule i borghi di queste “terre mosse” dell’Appennino “vanno ripensati perché sono oggi luoghi di grandi potenzialità”.
Pompili: “Un contratto tra la città e la montagna”
Serve, ha spiegato mons. Pompili riportato dal Sir, stipulare “un vero e proprio ‘contratto’ tra la città e la montagna. C’è un enorme debito – pensiamo all’acqua potabile, all’aria pulita, al cibo di qualità, al legno degli arredi – che le città hanno maturato verso le aree interne e i loro piccoli insediamenti. È arrivato il momento di onorare questo ‘debito’ con un progetto di reciprocità economica”.
“È necessario alla transizione ecologica vedere riconosciuto il debito straordinario che avremo verso chi, riabitando i piccoli centri e i borghi, si prenderà cura di un’agricoltura di qualità, dei boschi, del mare, dei laghi, delle coste, del paesaggio ancora bellissimo dell’Italia”.
“Non abbiamo bisogno di nuovi presepi – ha rimarcato il vescovo di Rieti – ma di piccoli centri attivi, a presidio di un territorio ancora straordinario e attraente per l’autenticità dei luoghi”.
Mons. Pompili ha parlato dell’Italia centrale come “il ponte più urgente da costruire” e, citando una recente indagine di Bankitalia che documenta il ritardo che patisce proprio il Centro-Italia “per l’incomprensibile arretratezza delle sue infrastrutture”, ha proposto la “Ferrovia dei due mari” per collegare l’Adriatico al Tirreno. “Lasciare che qualche centinaio di chilometri tenga ancora oggi separati l’Adriatico e il Tirreno – al netto di una Salaria in via di definizione – è un’imperdonabile leggerezza”, ha concluso il vescovo di Rieti.