Un prete sa essere un vero pastore quando sa prendersi cura del prossimo, come don Milani, quando sa discernere e denunciare il male. All’indomani della sua visita a Barbania, Papa Francesco ricorda la figura del parroco fiorentino nell’omelia, pronunciata a braccio, durante la celebrazione mattutina nella Domus Santa Marta, in Vaticano. Dapprima si sofferma sulla figura dell’apostolo Paolo, per poi sottolineare l’impegno di don Milani nel dedicarsi agli ultimi “senza buonismi ingenui“.
Essere appassionati
Riprendendo i versetti della prima lettura, tratta dalla Seconda Lettera di San Paolo ai Corinzi, Francesco, nella sua omelia, elenca le tre caratteristiche che dovrebbe avere un prete per essere un vero pastore. Bergoglio trova in San Paolo un modello ideale: “Il Buon Pastore dà la sua vita per le sue pecore”, non le abbandona come farebbe “un mercenario”. La prima qualità, dunque, è quella di essere “appassionato”. Zelante, “fino al punto di dire alla sua gente, al suo popolo: ‘Io provo per voi una specie di gelosia divina’”. E’ “divinamente geloso”, commenta il Papa. Un passione che si trasforma quasi in “stoltezza” per il suo popolo. “E questo – aggiunge – è quel tratto che noi chiamiamo lo zelo apostolico: non si può essere un vero pastore senza questo fuoco dentro“.
Saper discernere
La seconda caratteristica, prosegue, del pastore deve’essere quella del discernimento. Il prete è “un uomo che sa discernere. Sa che c’è nella vita la seduzione. Il padre della menzogna è un seduttore. Il pastore, no. Ama. Invece il serpente, l’invidioso, è un seduttore che cerca di allontanare dalla fedeltà, perché quella gelosia divina di Paolo era per portare il popolo a un unico sposo, per mantenere il popolo nella fedeltà al suo sposo. Nella storia della salvezza tante volte troviamo l’allontanamento da Dio, le infedeltà al Signore, l’idolatria come se fossero una infedeltà matrimoniale”. Dunque, deve saper “discernere dove ci sono i pericoli, dove ci sono le grazie … dove è la vera strada”. Questo, fa notare il Pontefice, “significa che accompagna le pecore sempre: nei momenti belli e anche nei momenti brutti, anche nei momenti della seduzione, con pazienza li porta all’ovile”.
Denunciare il male, non essere ingenui
Terza caratteristica, “la capacità di denunciare”. “Un apostolo non può essere un ingenuo: ‘Ah, è tutto bello, andiamo avanti… Facciamo una festa, tutto si può …’”. Poi ammonisce: “C’è la fedeltà all’unico sposo, a Gesù Cristo, da difendere. E lui sa condannare: quella concretezza, dire ‘questo no’, come i genitori dicono al bambino quando incomincia a gattonare e va alla presa elettrica a mettere le dita: ‘No, questo no! E’ pericoloso!’. Ma, mi viene in mente tante volte quel ‘non toccare nulla‘, che i miei genitori e nonni mi dicevano in quel momenti dove c’era un pericolo”. Quindi aggiunge: “Il Buon Pastore sa denunciare, con nome e cognome”, come San Paolo.
Prendersi cura degli altri senza buonismi
Francesco torna col pensiero alla sua visita a Bozzolo e Barbiana, nei posti, “di quei due bravi pastori italiani”. Ricordando don Milani, fa riferimento a quello che era il suo “motto” d’insegnamento: “I care“. “Cosa significa? Me lo hanno spiegato – prosegue il Papa -: con questo lui voleva dire ‘mi importa’. Insegnava che le cose si dovevano prendere sul serio, contro il motto che andava di moda in quell’epoca che era ‘non mi importa‘, ma detto in altro linguaggio, che io non oso dirlo qui”. Prendersi cura significa anche denunciare “quello che va contro la tua vita”. E tante volte, aggiunge Francesco, “perdiamo questa capacità di condanna e vogliamo portare avanti le pecore un po’ con quel buonismo che non solo è ingenuo ma fa male”. Quel “buonismo dei compromessi“, per “attirarsi l’ammirazione o l’amore dei fedeli”. Bergoglio conclude la sua riflessione con una preghiera “per tutti i pastori della Chiesa, perché San Paolo interceda davanti al Signore, perché tutti noi pastori possiamo avere queste tre tracce per servire il Signore”.