Un raggio di sole sorge ad Est. E squarcia le tenebre in cui è stata avvolta per quasi dieci anni Asia Bibi. La Corte Suprema del Pakistan ha rigettato la richiesta dei fondamentalisti islamici di riapertura del processo che ha scagionato, nell’ottobre scorso, la donna cristiana dall’accusa di blasfemia. Su di lei pendeva una condanna a morte emessa nel 2010, un anno dopo l’arresto. Ora la donna, che vive in una località segreta del Pakistan sotto stretta protezione, aspetta di poter espatriare e ricongiungersi con i propri familiari. La tensione emotiva sul suo destino resta però alta, come alta deve essere l’attenzione nei confronti di altri cristiani perseguitati. Lo spiega in un’intervista ad In Terris Alfredo Mantovano, presidente di Aiuto alla Chiesa che Soffre Italia, la fondazione di diritto pontificio che ha seguito il caso Asia Bibi fin dall’inizio.
Con questo esito che messaggio ha dato il Pakistan, Paese segnato in modo eloquente in rosso nel vostro Rapporto annuale sulla libertà religiosa?
“Ci sono un paio di segnali particolarmente positivi. In primo luogo, i giudici che hanno prosciolto Asia da qualsiasi accusa, la cui sentenza è stata confermata ieri dalla Corte Suprema, hanno dato prova di indipendenza e di coraggio. Si tratta di una sentenza molto ben scritta che, proprio fondandosi sulla sharia, ha ritenuto che Asia non avesse commesso nessuna violazione del diritto islamico: in prospettiva è molto incoraggiante. Affianco a questo, c’è la scelta pubblica di tanti fedeli dell’Islam, penso ai 500 imam pachistani che pochi giorni fa hanno sottoscritto la Dichiarazione di Islamabad contro il fondamentalismo islamico prendendo così le distanze da chi era sceso in piazza per ribaltare la sentenza su Asia attraverso le violenze. Parliamo dunque di due segnali, uno proveniente dalle Istituzioni e uno da un’area non marginale del mondo islamico, che fino a qualche mese fa erano tutt’altro che scontati. Restano tuttavia dei coni d’ombra”.
Ad esempio?
“La legge sulla blasfemia è ancora in vigore e viola la libertà religiosa, perché scambia per un’offesa ai dettami dell’Islam qualsiasi forma di religiosità alternativa. Ed è molto pericolosa, soprattutto nelle sue applicazioni più estese e distorte: spesso, l’evocazione della legge sulla blasfemia è diventata lo strumento per risolvere liti e odi all’interno di villaggi e tribù. È una questione che non è scomparsa con la definizione della vicenda di Asia Bibi, tanto è vero che sono tantissimi i pachistani in carcere (187 secondo quanto riportato da Aiuto alla Chiesa che Soffre, ndr), che affrontano processi o condanna già emesse, in alcuni casi di esecuzione capitale”.
Lei ha parlato di coraggio da parte dei giudici che hanno emesso la sentenza di assoluzione: cosa rischia in Pakistan un islamico che difende un cristiano ingiustamente accusato di blasfemia?
“La risposta è nei fatti accaduti negli ultimi anni. Un ministro del Governo federale islamico, Shahbaz Bhatti, è stato ucciso nel 2011 proprio per aver preso le difese di Asia Bibi. La stessa tragica sorte è toccata a dei giudici che si erano espressi in favore di questa donna cristiana. In presenza di un radicalismo così accentuato, si rischia anche la vita pur avendo posizioni istituzionali significative. Il che testimonia ancora di più il coraggio di chi si espone pubblicamente”.
Deve preoccupare ora la reazione dei gruppi fondamentalisti, quegli stessi che ad ottobre erano scesi in piazza e che hanno presentato il ricorso alla Corte Suprema?
“Non c’è da immaginare nulla di diverso rispetto a quanto è già accaduto. Ciò si traduce anche in una preoccupazione per l’incolumità di Asia Bibi e dei suoi familiari; il fatto che sia stata assolta non significa che siano cessati i pericoli per lei. È finita la persecuzione pubblica a cui è stata sottoposta negli ultimi dieci anni, ma non è finito il rischio per la sua vita e quella dei suoi familiari”.
Quale ruolo hanno svolto la comunità internazionale e organizzazioni come la vostra in questa vicenda e quanto possono aiutare ancora Asia Bibi?
“L’impegno è stato grande ed è necessario che prosegua. Che il processo ad Asia Bibi abbia avuto un epilogo positivo è dipeso anche dal fatto che sulla stampa occidentale di lei si è parlato e che ne è seguita una mobilitazione: ricordo l’udienza a febbraio che il Papa ha concesso al marito e alla figlia e a cui noi di Acs abbiamo assistito e ricordo, nello stesso periodo, l’iniziativa del Colosseo illuminato di rosso in memoria dei cristiani perseguitati. Si farebbe però un errore se ora si pensasse chiusa la vicenda della libertà religiosa in Pakistan, piuttosto bisogna considerare questa sentenza un punto d’avvio per manifestare in modo ancora più evidente in favore della libertà religiosa”.
Qual è la situazione dei cristiani nel mondo? Può darci qualche numero sulla persecuzione?
“Le cifre sono spaventose, moltitudini di persone soffrono a causa della loro fede per via di persecuzioni dirette e indirette. Dal nostro Rapporto emerge che un cristiano su sette vive in un Paese di persecuzione: parliamo di circa 300milioni di persone. I Paesi in cui la situazione è più feroce sono Corea del Nord, Eritrea, Arabia Saudita, Cina, Birmania, Afghanistan. Poi ci sono ventuno Paesi dove non avviene una persecuzione diretta, ma in cui non c’è una parità di trattamento rispetto ai fedeli di altre confessioni. Non mancano segnali positivi: si verifica una regressione di attacchi in Paesi come la Tanzania e il Kenya, grazie alla lotta al terrorismo. Di contro, il segnale più negativo giunge dall’India, dove è presente un mix tra religione indù e impulsi nazionalistici che colpisce non soltanto i cristiani, ma soprattutto i musulmani”.