Le mafie, in un ambiente in cui la religione cattolica è radicata nella cultura di un popolo, dedicano una cura particolare ai simboli e alle pratiche della religione cattolica senza porsi alcun problema sull’evidente contrasto tra quei simboli e la vita quotidiana dei mafiosi”. Lo scrive mons. Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, nel numero di dicembre di Vita Pastorale, anticipato al Sir.
Il commento
“Negli ultimi decenni, è maturata nella comunità ecclesiale una chiara, esplicita e ferma convinzione dell’incompatibilità dell’appartenenza mafiosa con la professione di fede cristiana”, aggiunge il presule. Ribadendo la “radicale incompatibilità” tra mafia e vita cristiana, l’arcivescovo sostiene che “la comunità cristiana non può limitarsi alla denuncia del fenomeno mafioso per la prevalente preoccupazione di parlare all’opinione pubblica, ma deve usare ‘parole propriamente cristiane e tipicamente evangeliche'”, come “peccato” e “conversione”. Dal presule un monito: “È compito della Chiesa aiutare a prendere consapevolezza che tutti, anche i cristiani, alimentiamo l’humus dove alligna e facilmente cresce la mafia”. E ancora: “La Chiesa, in forza della sua stessa missione, rivolge ai mafiosi l’appello alla conversione. Tuttavia, essa deve vigilare affinché l’esercizio del ministero di annuncio della misericordia di Dio non sia strumentalizzato dal mafioso, ad esempio durante la sua latitanza, e non si configuri, di fatto, come copertura o favoreggiamento di quanti hanno violato e talvolta continuano a violare la legge di Dio e quella degli uomini”. Infine, nelle parole dell’arcivescovo, l’attenzione è rivolta alla “conversione” dei boss che “non può essere ridotta a fatto intimistico, ma ha sempre una proiezione pubblica ed esige la riparazione”.