Sono giorni convulsi di comizi e dibattiti politici. Del resto domenica prossima, 4 marzo, gli italiani saranno chiamati alle urne per eleggere il prossimo Parlamento.
In Terris ha chiesto un’analisi sulla comunicazione che sta caratterizzando la campagna elettorale in corso al vescovo di Ascoli Piceno, mons. Giovanni D’Ercole, Presidente della Commissione Episcopale per la cultura e le comunicazioni Sociali.
Eccellenza, ieri Avvenire ha dedicato un’intera pagina al “digitalismo politico” del M5S pubblicando un articolo di Marco Morosini, già ghostwriter di Grillo. Secondo lei da cosa è dettata questa scelta del quotidiano dei vescovi a pochi giorni dalle elezioni?
“Bisognerebbe chiederlo a loro. Suppongo che tutto rientri nell’ambito di un’inchiesta che coinvolga a largo spettro tutte le forze politiche in campo. Il fatto che l’analisi sullo sviluppo tecnologico di questo Movimento sia uscita a pochi giorni dalle elezioni, forse qualcuno potrebbe interpretarlo in altro modo, ma sa, le interpretazioni – positive o negative che siano – sono sempre soggettive”.
A proposito di comunicazione politica. Nei giorni scorsi c’è stato un dibattito sull’ostentazione di simboli religiosi durante i comizi. Secondo lei è davvero così inopportuno che un politico manifesti pubblicamente la propria fede?
“Credo che non sia assolutamente inopportuno, ogni credente è chiamato a manifestare la fede pubblicamente. E per il politico farlo diventa indispensabile, perché la fede va testimoniata con la propria vita, con scelte che possono essere anche in controtendenza. Forse, in certe situazioni, questi gesti possono essere interpretati come strumentali. Si potrebbe pensare che sia un mezzo per attirare il consenso. Questo rischio c’è. A questo proposito ho apprezzato molto qualche giorno fa un intervento dell'arcivescovo di Milano, mons. Delpini, nel quale ha richiamato a ricondurre il discorso sulla politica, laddove i credenti sono chiamati a misurarsi con la realtà e a fare scelte coerenti con il Vangelo e con l'insegnamento della Chiesa”.
Ma è giusto che chi manifesta pubblicamente certi simboli, come ha fatto Salvini qualche giorno fa a Milano, venga giudicato nella sua coscienza di cristiano?
“Giudicare la coscienza è sempre molto delicato. Nella mia vita ho imparato ad essere molto prudente nel giudicare, prediligendo invece l’ascolto dell’altro. Soprattutto, va ricercato il positivo nelle persone: questo è il viatico per il dialogo”.
Quanto è importante per un cattolico in cabina elettorale la bussola dei principi non negoziabili?
“Tantissimo. Va tenuto presente quanto predicato da Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco: il compromesso non va fatto mai al ribasso. Al primo posto va messa l’adesione profonda alla propria fede. Certamente la politica esige una mediazione, che è però diversa dal compromesso. Così come il dialogo, il quale presuppone due identità che si confrontano. Dal confronto nasce non l’uniformità bensì la comune ricerca del bene comune”.
La “epidemia” del digitale, di cui il M5S è espressione, comporta anche dei rischi?
“In un’epoca come la nostra, dove la comunicazione è pervasiva, il rischio è la dipendenza dalla tecnologia digitale. Ciò avviene quando abusiamo di questi oggetti e lo strumento diventa il nostro padrone. Su tutti i fronti va stabilita un’alleanza strategica per far sì che lo strumento resti tale e sia al servizio del bene comune”.