Migranti, Francesco: “Favorire i processi di accoglienza”

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Riportiamo il testo integrale del discorso che Papa Francesco ha tenuto in occasione dell'incontro con i vescovi del Centroamerica che si è svolto nella chiesa di San Francesco d'Assisi di Panama in occasione della XXXIV Giornata mondiale della gioventù

Cari Fratelli!

Ringrazio Mons. José Luis Escobar Alas, Arcivescovo di San Salvador, per le parole di benvenuto che mi ha rivolto a nome di tutti. Sono felice di potervi incontrare e condividere in modo più familiare e diretto i vostri desideri, progetti e sogni di Pastori ai quali il Signore ha affidato la cura del suo popolo santo. Grazie per l'accoglienza fraterna.

Potermi incontrare con voi significa anche “regalarmi” l’opportunità di abbracciare e sentirmi più vicino alla vostra gente, fare miei i loro desideri, anche il loro scoraggiamento e, soprattutto, quella fede coraggiosa che sa animare la speranza e smuovere la carità. Grazie per avermi permesso di avvicinarmi alla fede provata ma semplice del volto povero della vostra gente che sa che «Dio è presente, non dorme, è attivo, osserva e aiuta» (S. Oscar Romero, Omelia, 16 dicembre 1979).

Questo incontro ci ricorda un evento ecclesiale di grande rilevanza. I Pastori di questa regione furono i primi a creare in America un organismo di comunione e partecipazione che ha dato – e continua a dare – frutti abbondanti. Mi riferisco alla Segretariato Episcopale dell’America Centrale (SEDAC). Uno spazio di comunione, di discernimento e di impegno che nutre, rivitalizza e arricchisce le vostre Chiese. Pastori che hanno saputo fare passi avanti e dare un segnale che, lungi dall’essere solo un elemento programmatico, ha indicato come il futuro dell’America Centrale – e di qualunque altra regione del mondo – passa necessariamente attraverso la lucidità e la capacità di ampliare la visione, di unire gli sforzi in un lavoro paziente e generoso di ascolto, comprensione, dedizione e impegno, e di poter così discernere i nuovi orizzonti verso i quali lo Spirito ci sta conducendo1 (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 235).

In questi 75 anni dalla sua fondazione, il SEDAC ha cercato di condividere le gioie e le tristezze, le lotte e le speranze dei popoli dell’America Centrale, la cui storia è stata intrecciata e forgiata con la storia della vostra gente. Molti uomini e donne, sacerdoti, consacrati, consacrate e laici hanno offerto la vita fino a spargere il loro sangue per mantenere viva la voce profetica della Chiesa di fronte all’ingiustizia, all’impoverimento di tante persone e all’abuso di potere. Essi ci ricordano che «chi desidera veramente dare gloria a Dio con la propria vita, chi realmente anela a santificarsi perché la sua esistenza glorifichi il Santo, è chiamato a tormentarsi, spendersi e stancarsi cercando di vivere le opere di misericordia» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 107). E questo, non come elemosina ma come vocazione.

Tra i frutti profetici della Chiesa in America Centrale sono lieto di evidenziare la figura di Sant’Oscar Romero, che ho avuto il privilegio di canonizzare di recente nel contesto del Sinodo dei Vescovi sui giovani. La sua vita e il suo insegnamento sono fonte costante di ispirazione per le nostre Chiese e, in modo particolare, per noi Vescovi.

Il motto che ha scelto per il suo stemma episcopale e che sormonta la sua tomba esprime chiaramente il suo principio ispiratore e ciò che è stata la sua vita di Pastore: “Sentire con la Chiesa”. Bussola che ha segnato la sua vita nella fedeltà, anche nei momenti più turbolenti.

Questa è un’eredità che può diventare una testimonianza attiva e vivificante per noi, chiamati a nostra volta alla dedizione martiriale nel servizio quotidiano alla nostra gente; e su questa eredità vorrei basarmi per questa riflessione che desidero condividere con voi. So che tra noi ci sono persone che lo hanno conosciuto in prima persona — come il Cardinale Rosa Chávez —, e quindi, Eminenza, se pensa che io mi sbagli in qualche osservazione mi può correggere. Appellarsi alla figura di Romero significa appellarsi alla santità e al carattere profetico che vive nel DNA delle vostre Chiese particolari.

Sentire con la Chiesa

1. Riconoscenza e gratitudine
Quando S. Ignazio propone le regole per sentire con la Chiesa cerca di aiutare l’esercitante a superare qualsiasi tipo di false dicotomie o antagonismi che possano ridurre la vita dello Spirito alla abituale tentazione di adattare la Parola di Dio al proprio interesse. Così permette all’esercitante la grazia di sentirsi e sapersi parte di un corpo apostolico più grande di lui e, nello stesso tempo, con la consapevolezza reale delle sue forze e delle sue possibilità: né debole ma nemmeno selettivo o temerario. Sentirsi parte di un tutto, che sarà sempre più della somma delle parti (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 235) e che è accompagnato da una Presenza che sempre lo supererà (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 8).

Quindi vorrei concentrare questo primo “Sentire con la Chiesa”, ricevuto da Sant’Oscar, come ringraziamento e gratitudine per il tanto bene ricevuto e non meritato. Romero ha potuto sintonizzarsi e imparare a vivere la Chiesa perché amava intimamente chi lo aveva generato nella fede. Senza questo amore intimo sarà molto difficile comprendere la sua storia e la sua conversione, poiché è stato questo medesimo amore a guidarlo fino a donarsi nel martirio; quell’amore che nasce dall’accogliere un dono totalmente gratuito, che non ci appartiene e che ci libera da ogni pretesa e tentazione di crederci i suoi proprietari o gli unici interpreti. Non abbiamo inventato la Chiesa, non è nata con noi e andrà avanti senza di noi. Tale atteggiamento, lungi dall’abbandonarci all’apatia, suscita un’insondabile e inimmaginabile gratitudine che dà nutrimento a tutto. Il martirio non è sinonimo di pusillanimità o l'atteggiamento di qualcuno che non ama la vita e non sa riconosce il suo valore. Al contrario, il martire è colui che è in grado di incarnare e tradurre in vita questo rendimento di grazie.

Romero ha sentito con la Chiesa perché, prima di tutto, ha amato la Chiesa come madre che lo ha generato nella fede e si è sentito membro e parte di essa.

2. Un amore che sa di popolo
Questo amore, fatto di adesione e gratitudine, lo ha portato ad abbracciare con passione, ma anche con dedizione e studio, tutto l’apporto e il rinnovamento magisteriale che il Concilio Vaticano II proponeva. Lì trovava la mano sicura per seguire Cristo. Non è stato ideologo né ideologico; la sua azione è nata da una compenetrazione con i documenti conciliari. Illuminato da questo orizzonte ecclesiale, sentire con la Chiesa significa per Romero contemplarla come Popolo di Dio. Perché il Signore non ha voluto salvarci ciascuno isolato e separato, ma ha voluto costituire un popolo che lo confessasse nella verità e lo servisse nella santità (cfr Cost. dogm. Lumen gentium, 9). Un Popolo intero che possiede, custodisce e celebra l’“unzione del Santo” (ibid., 12) e davanti al quale Romero si poneva in ascolto per non rifiutare la sua ispirazione (cfr S. Oscar Romero, Omelia, 16 luglio 1978). Così ci mostra che il Pastore, per cercare e incontrare il Signore, deve imparare e ascoltare il battito del cuore del suo popolo, sentire l’“odore” degli uomini e delle donne di oggi fino a rimanere impregnato delle sue gioie e speranze, delle sue tristezze e angosce (cfr Cost. past. Gaudium et spes, 1) e così comprendere in profondità la Parola di Dio (cfr Cost. dogm. Dei Verbum, 13). Ascolto del popolo a lui affidato, fino a respirare e scoprire per mezzo di esso la volontà di Dio che ci chiama (cfr Discorso nella veglia in preparazione al Sinodo sulla famiglia, 4 ottobre 2014). Senza dicotomie o falsi antagonismi, perché solo l’amore di Dio è capace di armonizzare tutti i nostri amori in un medesimo sentire e guardare.

Per lui, insomma, sentire con la Chiesa è prendere parte alla gloria della Chiesa, che consiste nel portare nel proprio intimo tutta la kenosis di Cristo. Nella Chiesa Cristo vive tra di noi, e perciò essa dev’essere umile e povera, perché una Chiesa arrogante, una chiesa piena di orgoglio, una Chiesa autosufficiente non è la Chiesa della kenosis (cfr S. Oscar Romero, Omelia, 1° ottobre 1978).

3. Portare dentro di sé la kenosis di Cristo

Questa non è solo la gloria della Chiesa, ma anche una vocazione, un invito affinché sia nostra gloria personale e via di santità. La kenosis di Cristo non è una cosa del passato ma una garanzia attuale per sentire e scoprire la sua presenza operante nella storia. Presenza che non possiamo e non vogliamo tacere perché sappiamo e abbiamo sperimentato che solo Lui è “Via, Verità e Vita”. La kenosis di Cristo ci ricorda che Dio salva nella storia, nella vita di ogni uomo, che questa è anche la sua storia e lì ci viene incontro (cfr Id., Omelia, 7 dicembre 1978). È importante, fratelli, che non abbiamo paura di accostare e toccare le ferite della nostra gente, che sono anche le nostre ferite, e questo farlo nello stile del Signore. Il pastore non può stare lontano dalla sofferenza del suo popolo; anzi, potremmo dire che il cuore del pastore si misura dalla sua capacità di commuoversi di fronte a tante vite ferite e minacciate. Farlo nello stile del Signore significa lasciare che questa sofferenza colpisca e contrassegni le nostre priorità e i nostri gusti, l’uso del tempo e del denaro e anche il modo di pregare, per poter ungere tutto e tutti con la consolazione dell’amicizia di Gesù in una comunità di fede che contenga e apra un orizzonte sempre nuovo che dia senso e speranza alla vita (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 49). La kenosis di Cristo esige di abbandonare la virtualità dell’esistenza e dei discorsi per ascoltare il rumore e il richiamo costante di persone reali che ci provocano a creare legami. E, lasciatemelo dire, le reti servono a creare contatti ma non radici, non sono in grado di darci appartenenza, di farci sentire parte di uno stesso popolo. Senza questo sentire, tutto il nostro parlare, riunirci, incontrarci, scrivere sarà segno di una fede che non ha saputo accompagnare la kenosis del Signore, una fede che è rimasta a metà strada.

La kenosis di Cristo è giovane
Questa Giornata Mondiale della Gioventù è un’occasione unica per andare incontro e avvicinarsi ancora di più alla realtà dei nostri giovani, piena di speranze e desideri, ma anche profondamente segnata da tante ferite. Con loro potremo leggere in modo rinnovato la nostra epoca e riconoscere i segni dei tempi perché, come hanno affermato i Padri sinodali, i giovani sono uno dei “luoghi teologici” in cui il Signore ci fa conoscere alcune delle sue aspettative e delle sue sfide per costruire domani (cfr Sinodo sui Giovani, Documento finale, 64). Con loro potremo vedere meglio come rendere il Vangelo più accessibile e credibile nel mondo in cui viviamo; essi sono come un termometro per sapere a che punto siamo come comunità e come società.

Essi portano dentro una inquietudine che dobbiamo apprezzare, rispettare, accompagnare; e quanto bene fa a tutti noi, perché ci smuove e ci ricorda che il Pastore non smette mai di essere un discepolo ed è sempre in cammino. Questa sana inquietudine ci mette in movimento e ci precede. Questo hanno ricordato i Padri sinodali quando hanno detto: «I giovani, per certi aspetti, precedono i Pastori» (ibid., 66). Deve riempirci di gioia constatare che la semina non è andata a vuoto. Molte di quelle aspirazioni e intuizioni si sono sviluppate in seno alla famiglia, nutrite da una nonna o da una catechista, o nella parrocchia, nella pastorale educativa o giovanile. Desideri che sono cresciuti nell’ascolto del Vangelo e in comunità con fede viva e fervente che trova terra per germogliare. Come non ringraziare di avere giovani desiderosi di Vangelo! Questa realtà ci stimola a un maggiore impegno per aiutarli a crescere offrendo loro spazi maggiori e migliori che li generino al sogno di Dio. La Chiesa per sua natura è Madre e come tale genera e incuba la vita proteggendola da tutto ciò che può minacciare il suo sviluppo. Gestazione nella libertà e per la libertà. Vi esorto pertanto a promuovere programmi e centri educativi che sappiano accompagnare, sostenere e responsabilizzare i vostri giovani; “rubateli” alla strada prima che sia la cultura della morte che, “vendendo loro fumo” e soluzioni magiche, catturi e sfrutti la loro immaginazione. E fatelo non con paternalismo, dall’alto in basso, perché non è questo che il Signore ci chiede, ma come padri, come fratelli verso fratelli. Essi sono volto di Cristo per noi e a Cristo non arrivare dall’alto in basso, ma dal basso in alto (cfr S. Oscar Romero, Omelia, 2 settembre 1979).

Sono molti i giovani che purtroppo sono stati sedotti con risposte immediate che ipotecano la vita. Ci dicevano i Padri sinodali: per costrizione o mancanza di alternative essi si trovano immersi in situazioni fortemente conflittuali e senza rapida soluzione: violenza domestica, femminicidio – che piaga vive il nostro continente in questo senso! – bande armate e criminali, traffico di droga, sfruttamento sessuale di minori e non più minori, e così via; e fa male vedere che, alla base di molte di queste situazioni, c’è un’esperienza di orfanezza frutto di una cultura e di una società che “ha rotto gli argini”. Famiglie molto spesso logorate da un sistema economico che non mette al primo posto le persone e il bene comune e che ha fatto della speculazione il suo “paradiso” dove continuare a ingrassare non importa a spese di chi. E così i nostri giovani senza il calore di una casa, senza famiglia, senza comunità, senza appartenenza, sono lasciati in balìa del primo truffatore.

Non dimentichiamo che «un vero dolore che esce dall’uomo, appartiene anzitutto a Dio» (G. Bernanos, Diario di un curato di campagna, Milano 1998, 72). Non separiamo ciò che Egli ha voluto unire nel suo Figlio!

Il futuro esige che si rispetti il presente riconoscendo la dignità delle culture dei vostri popoli e impegnandosi a valorizzarle. Anche in questo si gioca la dignità: nell’autostima culturale. La vostra gente non è la “serie B” della società e di nessuno. Ha una storia ricca che va accettata, apprezzata e incoraggiata. I semi del Regno sono stati piantati in queste terre. Abbiamo il dovere di riconoscerli, prendercene cura e proteggerli perché niente di quello che Dio ha piantato di buono si secchi a causa di interessi falsi che diffondono dappertutto la corruzione e crescono spogliando i più poveri. Avere cura delle radici è tutelare il ricco patrimonio storico, culturale e spirituale che questa terra per secoli ha saputo amalgamare. Impegnatevi e alzate la voce contro la desertificazione culturale e spirituale dei vostri popoli, che produce un’indigenza radicale perché lascia senza quella indispensabile immunità vitale che mantiene la dignità nei momenti di maggiore difficoltà.

Nell’ultima lettera pastorale, voi affermate: «Ultimamente la nostra regione è stata colpita dalla migrazione fatta in un modo nuovo, essendo di massa e organizzata, e ciò ha messo in evidenza i motivi che causano una migrazione forzata e i pericoli che essa comporta per la dignità della persona umana» (SEDAC, Messaggio al Popolo di Dio e a tutti gli uomini di buona volontà, 30 novembre 2018).

Molti dei migranti hanno volto giovane, cercano qualcosa di meglio per le loro famiglie, non temono di rischiare e lasciare tutto pur di offrire le condizioni minime che garantiscano un futuro migliore. Su questo non basta solo la denuncia, ma dobbiamo annunciare concretamente una “buona notizia”. La Chiesa, grazie alla sua universalità, può offrire quell’ospitalità fraterna e accogliente in modo che le comunità di origine e quelle di arrivo dialoghino e contribuiscano a superare paure e diffidenze e rafforzino i legami che le migrazioni, nell’immaginario collettivo, minacciano di spezzare .“Accogliere, proteggere, promuovere e integrare” possono essere i quattro verbi con cui la Chiesa, in questa situazione migratoria, coniuga la sua maternità nell’oggi della storia (cfr Sinodo sui Giovani, Documento finale, 147).

Tutti gli sforzi che potrete compiere gettando ponti tra comunità ecclesiali, parrocchiali, diocesane, come pure mediante le Conferenze episcopali saranno un gesto profetico della Chiesa che in Cristo è «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Cost. dogm. Lumen gentium, 1). Così la tentazione di limitarsi alla mera denuncia svanisce e si attua l’annuncio della Vita nuova che il Signore ci dona.

Ricordiamo l’esortazione di San Giovanni: «Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio? Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1 Gv 3,17-18).

Tutte queste situazioni pongono domande, sono situazioni che ci chiamano alla conversione, alla solidarietà e a un’azione educativa incisiva nelle nostre comunità. Non possiamo rimanere indifferenti (cfr Sinodo sui Giovani, Documento finale, 41-44). Il mondo scarta, lo sappiamo e ne soffriamo; la kenosis di Cristo no, l’abbiamo sperimentato e continuiamo a sperimentarlo nella nostra stessa carne con il perdono e la conversione. Questa tensione ci costringe a chiederci continuamente: da che parte vogliamo stare?

La kenosis di Cristo è sacerdotale
Sono ben noti l’amicizia di Mons. Romero con il P. Rutilio Grande e l’impatto che l’assassinio di quest’ultimo ebbe sulla sua vita. È stato un avvenimento che ha marchiato a fuoco il suo cuore di uomo, di sacerdote e di pastore. Romero non era un amministratore di risorse umane, non gestiva persone o organizzazioni, sentiva con amore di padre, amico e fratello. Una misura un po’ alta, ma una misura utile per valutare il nostro cuore episcopale, una misura davanti alla quale possiamo chiederci: quanto mi tocca la vita dei miei preti? Quanto riesco a lasciarmi colpire da ciò che vivono, dal piangere i loro dolori, dal festeggiare e gioire per le loro gioie? Il funzionalismo ecclesiale e il clericalismo – così tristemente diffuso, che rappresenta una caricatura e una perversione del ministero – si comincia a misurarlo con queste domande. Non è questione di cambiamenti negli stili, nelle maniere o nel linguaggio – tutte cose certamente importanti –, ma soprattutto è una questione di impatto e della capacità che i nostri programmi episcopali abbiano spazio per ricevere, accompagnare e sostenere i nostri sacerdoti, abbiano “spazio reale” per occuparci di loro. Questo fa di noi dei padri fecondi.

Su di loro normalmente ricade in modo speciale la responsabilità che questo popolo sia il popolo di Dio. Sono in prima linea. Portano sulle spalle il peso della giornata e il caldo (cfr Mt 20,12), sono esposti a una serie di situazioni quotidiane che possono renderli più vulnerabili e, pertanto, hanno anche bisogno della nostra vicinanza, della nostra comprensione e dell’incoraggiamento, della nostra paternità. Il risultato del lavoro pastorale, dell’evangelizzazione nella Chiesa e della missione non si basa sulla ricchezza dei mezzi e sulle risorse materiali, o sulla quantità di eventi o attività che realizziamo, ma sulla centralità della compassione: una delle grandi caratteristiche che come Chiesa possiamo offrire ai nostri fratelli. La kenosis di Cristo è l’espressione massima della compassione del Padre. La Chiesa di Cristo è la Chiesa della compassione, e questo inizia a casa. È sempre buona cosa chiederci come pastori: quanto mi tocca la vita dei miei sacerdoti? Sono capace di essere un padre o mi consolo con l’essere un mero esecutore? Mi lascio scomodare? Ricordo le parole di Benedetto XVI all’inizio del suo pontificato parlando ai suoi connazionali: «Cristo non ci ha promesso una vita comoda. Chi cerca la comodità con Lui ha sbagliato strada. Egli ci mostra il percorso che porta alle cose grandi, al bene, a una vita umana autentica» (Discorso ai pellegrini tedeschi, 25 aprile 2005).

Sappiamo che il nostro lavoro, nelle visite e negli incontri che svolgiamo, specialmente nelle parrocchie, ha una dimensione e una componente amministrativa che è necessario portare avanti. Bisogna assicurarsi che venga fatto, ma questo non significa che spetti a noi utilizzare il poco tempo che abbiamo in adempimenti amministrativi. Nelle visite, la cosa fondamentale e che non possiamo delegare è l’ascolto. Ci sono tante cose che facciamo ogni giorno che dovremmo affidare ad altri. Quello che non possiamo delegare, invece, è la capacità di ascoltare, la capacità di seguire la salute e la vita dei nostri sacerdoti. Non possiamo delegare ad altri la porta aperta per loro. Porta aperta per creare le condizioni che rendano possibile la fiducia più che la paura, la sincerità più che l’ipocrisia, lo scambio franco e rispettoso più che il monologo disciplinare.

Ricordo le parole di Rosmini: «Certo, solo grandi uomini possono formare altri grandi uomini […]. Nei primi secoli, la casa del vescovo era il seminario dei preti e dei diaconi; la presenza e la santa conversazione del loro prelato era un’infuocata lezione, continua, sublime, dove si apprendeva la teoria nelle sue dotte parole, congiunta alla pratica nelle sue assidue occupazioni pastorali. E in tal modo accanto agli Alessandri si vedevano allora crescere bellamente i giovani Atanasi» (Delle cinque piaghe della santa Chiesa, Brescia 1966, 40).

È importante che il sacerdote trovi il padre, il pastore in cui “rispecchiarsi” e non l’amministratore che vuole “passare in rivista le truppe”. È fondamentale che, con tutte le cose in cui ci differenziamo e anche quelle in cui non siamo d’accordo e le discussioni che possono esserci (ed è normale e auspicabile che ci siano), i preti vedano nel vescovo un uomo capace di spendersi ed esporsi per loro, di farli andare avanti e tendere loro la mano quando si trovano impantanati. Un uomo di discernimento che sappia orientare e trovare vie concrete e praticabili nei diversi incroci di ogni storia personale.

La parola autorità deriva etimologicamente dalla radice latina augere che significa aumentare, promuovere, far progredire. L’autorità del Pastore consiste in particolare nell’aiutare a crescere, nel promuovere i suoi presbiteri, piuttosto che nel promuovere sé stesso – questo lo fa uno scapolo –. La gioia del padre/pastore è vedere che i suoi figli sono cresciuti e sono stati fecondi. Fratelli, che sia questa la nostra autorità e il segno della nostra fecondità.

La kenosis di Cristo è povera
Fratelli, sentire con la Chiesa è sentire con il popolo fedele, il popolo di Dio che soffre e spera. È sapere che la nostra identità ministeriale nasce e si capisce alla luce di questa appartenenza unica e costitutiva del nostro essere. In questo senso, vorrei ricordare con voi ciò che Sant’Ignazio scriveva a noi gesuiti: «la povertà è madre e muro», genera e sostiene. Madre, perché ci chiama alla fecondità, alla generatività, alla capacità di donazione che sarebbe impossibile in un cuore avaro o che cerca di accumulare. E muro, perché ci protegge da una delle tentazioni più sottili che noi consacrati dobbiamo affrontare, la mondanità spirituale: il rivestire di valori religiosi e “pii” la sete di potere e di protagonismo, la vanità e persino l’orgoglio e la superbia. Muro e madre che ci aiutano ad essere una Chiesa sempre più libera perché centrata nella kenosis del suo Signore. Una Chiesa che non vuole che la sua forza stia – come diceva Mons. Romero – nell’appoggio dei potenti o della politica, ma che si svincoli con nobiltà per camminare sorretta unicamente dalle braccia del Crocifisso, che è la sua vera forza. E questo si traduce in segni concreti ed evidenti; questo ci interroga e ci spinge ad un esame di coscienza sulle nostre scelte e priorità nell’uso delle risorse, delle influenze e delle posizioni. La povertà è madre e muro perché custodisce il nostro cuore perché non scivoli in concessioni e compromessi che indeboliscono la libertà e la parresia a cui il Signore ci chiama.

Fratelli, prima di concludere, mettiamoci sotto il manto della Vergine, preghiamo insieme perché ella custodisca i nostri cuori di Pastori e ci aiuti a servire meglio il Corpo di suo Figlio, il santo Popolo fedele di Dio che cammina, vive e prega qui in America Centrale. Gesù vi benedica e la Vergine Maria vi protegga. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

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