Riportiamo il testo integrale del discorso che Papa Francesco ha tenuto in occasione dell'incontro con i vescovi del Centroamerica che si ĆØ svolto nella chiesa di San Francesco d'Assisi di PanamaĀ in occasione della XXXIV Giornata mondiale della gioventĆ¹.Ā
Cari Fratelli!
Ringrazio Mons. JosĆ© Luis Escobar Alas, Arcivescovo di San Salvador, per le parole di benvenuto che mi ha rivolto a nome di tutti. Sono felice di potervi incontrare e condividere in modo piĆ¹ familiare e diretto i vostri desideri, progetti e sogni di Pastori ai quali il Signore ha affidato la cura del suo popolo santo. Grazie per l'accoglienza fraterna.
Potermi incontrare con voi significa anche āregalarmiā lāopportunitĆ di abbracciare e sentirmi piĆ¹ vicino alla vostra gente, fare miei i loro desideri, anche il loro scoraggiamento e, soprattutto, quella fede coraggiosa che sa animare la speranza e smuovere la caritĆ . Grazie per avermi permesso di avvicinarmi alla fede provata ma semplice del volto povero della vostra gente che sa che Ā«Dio ĆØ presente, non dorme, ĆØ attivo, osserva e aiutaĀ» (S. Oscar Romero,Ā Omelia, 16 dicembre 1979).
Questo incontro ci ricorda un evento ecclesiale di grande rilevanza. I Pastori di questa regione furono i primi a creare in America un organismo di comunione e partecipazione che ha dato – e continua a dare – frutti abbondanti. Mi riferisco alla Segretariato Episcopale dellāAmerica Centrale (SEDAC). Uno spazio di comunione, di discernimento e di impegno che nutre, rivitalizza e arricchisce le vostre Chiese. Pastori che hanno saputo fare passi avanti e dare un segnale che, lungi dallāessere solo un elemento programmatico, ha indicato come il futuro dellāAmerica Centrale ā e di qualunque altra regione del mondo ā passa necessariamente attraverso la luciditĆ e la capacitĆ di ampliare la visione, di unire gli sforzi in un lavoro paziente e generoso di ascolto, comprensione, dedizione e impegno, e di poter cosƬ discernere i nuovi orizzonti verso i quali lo Spirito ci sta conducendo1Ā (cfr Esort. ap.Ā Evangelii gaudium, 235).
In questi 75 anni dalla sua fondazione, il SEDAC ha cercato di condividere le gioie e le tristezze, le lotte e le speranze dei popoli dellāAmerica Centrale, la cui storia ĆØ stata intrecciata e forgiata con la storia della vostra gente. Molti uomini e donne, sacerdoti, consacrati, consacrate e laici hanno offerto la vita fino a spargere il loro sangue per mantenere viva la voce profetica della Chiesa di fronte allāingiustizia, allāimpoverimento di tante persone e allāabuso di potere. Essi ci ricordano che Ā«chi desidera veramente dare gloria a Dio con la propria vita, chi realmente anela a santificarsi perchĆ© la sua esistenza glorifichi il Santo, ĆØ chiamato a tormentarsi, spendersi e stancarsi cercando di vivere le opere di misericordiaĀ» (Esort. ap.Ā Gaudete et exsultate, 107). E questo, non come elemosina ma come vocazione.
Tra i frutti profetici della Chiesa in America Centrale sono lieto di evidenziare la figura di SantāOscar Romero, che ho avuto il privilegio di canonizzare di recente nel contesto del Sinodo dei Vescovi sui giovani. La sua vita e il suo insegnamento sono fonte costante di ispirazione per le nostre Chiese e, in modo particolare, per noi Vescovi.
Il motto che ha scelto per il suo stemma episcopale e che sormonta la sua tomba esprime chiaramente il suo principio ispiratore e ciĆ² che ĆØ stata la sua vita di Pastore: āSentire con la Chiesaā. Bussola che ha segnato la sua vita nella fedeltĆ , anche nei momenti piĆ¹ turbolenti.
Questa ĆØ unāereditĆ che puĆ² diventare una testimonianza attiva e vivificante per noi, chiamati a nostra volta alla dedizione martiriale nel servizio quotidiano alla nostra gente; e su questa ereditĆ vorrei basarmi per questa riflessione che desidero condividere con voi. So che tra noi ci sono persone che lo hanno conosciuto in prima persona ā come il Cardinale Rosa ChĆ”vez ā, e quindi, Eminenza, se pensa che io mi sbagli in qualche osservazione mi puĆ² correggere. Appellarsi alla figura di Romero significa appellarsi alla santitĆ e al carattere profetico che vive nel DNA delle vostre Chiese particolari.
Sentire con la Chiesa
1. Riconoscenza e gratitudine
Quando S. Ignazio propone le regole per sentire con la Chiesa cerca di aiutare lāesercitante a superare qualsiasi tipo di false dicotomie o antagonismi che possano ridurre la vita dello Spirito alla abituale tentazione di adattare la Parola di Dio al proprio interesse. CosƬ permette allāesercitante la grazia di sentirsi e sapersi parte di un corpo apostolico piĆ¹ grande di lui e, nello stesso tempo, con la consapevolezza reale delle sue forze e delle sue possibilitĆ : nĆ© debole ma nemmeno selettivo o temerario. Sentirsi parte di un tutto, che sarĆ sempre piĆ¹ della somma delle parti (cfr Esort. ap.Ā Evangelii gaudium, 235) e che ĆØ accompagnato da una Presenza che sempre lo supererĆ (cfr Esort. ap.Ā Gaudete et exsultate, 8).
Quindi vorrei concentrare questo primo āSentire con la Chiesaā, ricevuto da SantāOscar, come ringraziamento e gratitudine per il tanto bene ricevuto e non meritato. Romero ha potuto sintonizzarsi e imparare a vivere la Chiesa perchĆ© amava intimamente chi lo aveva generato nella fede. Senza questo amore intimo sarĆ molto difficile comprendere la sua storia e la sua conversione, poichĆ© ĆØ stato questo medesimo amore a guidarlo fino a donarsi nel martirio; quellāamore che nasce dallāaccogliere un dono totalmente gratuito, che non ci appartiene e che ci libera da ogni pretesa e tentazione di crederci i suoi proprietari o gli unici interpreti. Non abbiamo inventato la Chiesa, non ĆØ nata con noi e andrĆ avanti senza di noi. Tale atteggiamento, lungi dallāabbandonarci allāapatia, suscita unāinsondabile e inimmaginabile gratitudine che dĆ nutrimento a tutto. Il martirio non ĆØ sinonimo di pusillanimitĆ o l'atteggiamento di qualcuno che non ama la vita e non sa riconosce il suo valore. Al contrario, il martire ĆØ colui che ĆØ in grado di incarnare e tradurre in vita questo rendimento di grazie.
Romero ha sentito con la Chiesa perchĆ©, prima di tutto, ha amato la Chiesa come madre che lo ha generato nella fede e si ĆØ sentito membro e parte di essa.
2. Un amore che sa di popolo
Questo amore, fatto di adesione e gratitudine, lo ha portato ad abbracciare con passione, ma anche con dedizione e studio, tutto lāapporto e il rinnovamento magisteriale che il Concilio Vaticano II proponeva. LƬ trovava la mano sicura per seguire Cristo. Non ĆØ stato ideologo nĆ© ideologico; la sua azione ĆØ nata da una compenetrazione con i documenti conciliari. Illuminato da questo orizzonte ecclesiale, sentire con la Chiesa significa per Romero contemplarla come Popolo di Dio. PerchĆ© il Signore non ha voluto salvarci ciascuno isolato e separato, ma ha voluto costituire un popolo che lo confessasse nella veritĆ e lo servisse nella santitĆ (cfr Cost. dogm.Ā Lumen gentium, 9). Un Popolo intero che possiede, custodisce e celebra lāāunzione del Santoā (ibid., 12) e davanti al quale Romero si poneva in ascolto per non rifiutare la sua ispirazione (cfr S. Oscar Romero,Ā Omelia, 16 luglio 1978). CosƬ ci mostra che il Pastore, per cercare e incontrare il Signore, deve imparare e ascoltare il battito del cuore del suo popolo, sentire lāāodoreā degli uomini e delle donne di oggi fino a rimanere impregnato delle sue gioie e speranze, delle sue tristezze e angosce (cfr Cost. past.Ā Gaudium et spes, 1) e cosƬ comprendere in profonditĆ la Parola di Dio (cfr Cost. dogm.Ā Dei Verbum, 13). Ascolto del popolo a lui affidato, fino a respirare e scoprire per mezzo di esso la volontĆ di Dio che ci chiama (cfrĀ Discorso nella veglia in preparazione al Sinodo sulla famiglia, 4 ottobre 2014). Senza dicotomie o falsi antagonismi, perchĆ© solo lāamore di Dio ĆØ capace di armonizzare tutti i nostri amori in un medesimo sentire e guardare.
Per lui, insomma, sentire con la Chiesa ĆØ prendere parte alla gloria della Chiesa, che consiste nel portare nel proprio intimo tutta laĀ kenosisĀ di Cristo. Nella Chiesa Cristo vive tra di noi, e perciĆ² essa devāessere umile e povera, perchĆ© una Chiesa arrogante, una chiesa piena di orgoglio, una Chiesa autosufficiente non ĆØ la Chiesa dellaĀ kenosisĀ (cfr S. Oscar Romero,Ā Omelia, 1Ā° ottobre 1978).
3. Portare dentro di sĆ© laĀ kenosisĀ di Cristo
Questa non ĆØ solo la gloria della Chiesa, ma anche una vocazione, un invito affinchĆ© sia nostra gloria personale e via di santitĆ . LaĀ kenosisĀ di Cristo non ĆØ una cosa del passato ma una garanzia attuale per sentire e scoprire la sua presenza operante nella storia. Presenza che non possiamo e non vogliamo tacere perchĆ© sappiamo e abbiamo sperimentato che solo Lui ĆØ āVia, VeritĆ e Vitaā. LaĀ kenosisĀ di Cristo ci ricorda che Dio salva nella storia, nella vita di ogni uomo, che questa ĆØ anche la sua storia e lƬ ci viene incontro (cfr Id.,Ā Omelia, 7 dicembre 1978). Ć importante, fratelli, che non abbiamo paura di accostare e toccare le ferite della nostra gente, che sono anche le nostre ferite, e questo farlo nello stile del Signore. Il pastore non puĆ² stare lontano dalla sofferenza del suo popolo; anzi, potremmo dire che il cuore del pastore si misura dalla sua capacitĆ di commuoversi di fronte a tante vite ferite e minacciate. Farlo nello stile del Signore significa lasciare che questa sofferenza colpisca e contrassegni le nostre prioritĆ e i nostri gusti, lāuso del tempo e del denaro e anche il modo di pregare, per poter ungere tutto e tutti con la consolazione dellāamicizia di GesĆ¹ in una comunitĆ di fede che contenga e apra un orizzonte sempre nuovo che dia senso e speranza alla vita (cfr Esort. ap.Ā Evangelii gaudium, 49). LaĀ kenosisĀ di Cristo esige di abbandonare la virtualitĆ dellāesistenza e dei discorsi per ascoltare il rumore e il richiamo costante di persone reali che ci provocano a creare legami. E, lasciatemelo dire, le reti servono a creare contatti ma non radici, non sono in grado di darci appartenenza, di farci sentire parte di uno stesso popolo. Senza questo sentire, tutto il nostro parlare, riunirci, incontrarci, scrivere sarĆ segno di una fede che non ha saputo accompagnare laĀ kenosisĀ del Signore, una fede che ĆØ rimasta a metĆ strada.
LaĀ kenosisĀ di Cristo ĆØ giovane
Questa Giornata Mondiale della GioventĆ¹ ĆØ unāoccasione unica per andare incontro e avvicinarsi ancora di piĆ¹ alla realtĆ dei nostri giovani, piena di speranze e desideri, ma anche profondamente segnata da tante ferite. Con loro potremo leggere in modo rinnovato la nostra epoca e riconoscere i segni dei tempi perchĆ©, come hanno affermato i Padri sinodali, i giovani sono uno dei āluoghi teologiciā in cui il Signore ci fa conoscere alcune delle sue aspettative e delle sue sfide per costruire domani (cfr Sinodo sui Giovani,Ā Documento finale, 64). Con loro potremo vedere meglio come rendere il Vangelo piĆ¹ accessibile e credibile nel mondo in cui viviamo; essi sono come un termometro per sapere a che punto siamo come comunitĆ e come societĆ .
Essi portano dentro una inquietudine che dobbiamo apprezzare, rispettare, accompagnare; e quanto bene fa a tutti noi, perchĆ© ci smuove e ci ricorda che il Pastore non smette mai di essere un discepolo ed ĆØ sempre in cammino. Questa sana inquietudine ci mette in movimento e ci precede. Questo hanno ricordato i Padri sinodali quando hanno detto: Ā«I giovani, per certi aspetti, precedono i PastoriĀ» (ibid., 66). Deve riempirci di gioia constatare che la semina non ĆØ andata a vuoto. Molte di quelle aspirazioni e intuizioni si sono sviluppate in seno alla famiglia, nutrite da una nonna o da una catechista, o nella parrocchia, nella pastorale educativa o giovanile. Desideri che sono cresciuti nellāascolto del Vangelo e in comunitĆ con fede viva e fervente che trova terra per germogliare. Come non ringraziare di avere giovani desiderosi di Vangelo! Questa realtĆ ci stimola a un maggiore impegno per aiutarli a crescere offrendo loro spazi maggiori e migliori che li generino al sogno di Dio. La Chiesa per sua natura ĆØ Madre e come tale genera e incuba la vita proteggendola da tutto ciĆ² che puĆ² minacciare il suo sviluppo. Gestazione nella libertĆ e per la libertĆ . Vi esorto pertanto a promuovere programmi e centri educativi che sappiano accompagnare, sostenere e responsabilizzare i vostri giovani; ārubateliā alla strada prima che sia la cultura della morte che, āvendendo loro fumoā e soluzioni magiche, catturi e sfrutti la loro immaginazione. E fatelo non con paternalismo, dallāalto in basso, perchĆ© non ĆØ questo che il Signore ci chiede, ma come padri, come fratelli verso fratelli. Essi sono volto di Cristo per noi e a Cristo non arrivare dallāalto in basso, ma dal basso in alto (cfr S. Oscar Romero,Ā Omelia, 2 settembre 1979).
Sono molti i giovani che purtroppo sono stati sedotti con risposte immediate che ipotecano la vita. Ci dicevano i Padri sinodali: per costrizione o mancanza di alternative essi si trovano immersi in situazioni fortemente conflittuali e senza rapida soluzione: violenza domestica, femminicidio ā che piaga vive il nostro continente in questo senso! ā bande armate e criminali, traffico di droga, sfruttamento sessuale di minori e non piĆ¹ minori, e cosƬ via; e fa male vedere che, alla base di molte di queste situazioni, cāĆØ unāesperienza di orfanezza frutto di una cultura e di una societĆ che āha rotto gli arginiā. Famiglie molto spesso logorate da un sistema economico che non mette al primo posto le persone e il bene comune e che ha fatto della speculazione il suo āparadisoā dove continuare a ingrassare non importa a spese di chi. E cosƬ i nostri giovani senza il calore di una casa, senza famiglia, senza comunitĆ , senza appartenenza, sono lasciati in balƬa del primo truffatore.
Non dimentichiamo che Ā«un vero dolore che esce dallāuomo, appartiene anzitutto a DioĀ» (G. Bernanos,Ā Diario di un curato di campagna, Milano 1998, 72). Non separiamo ciĆ² che Egli ha voluto unire nel suo Figlio!
Il futuro esige che si rispetti il presente riconoscendo la dignitĆ delle culture dei vostri popoli e impegnandosi a valorizzarle. Anche in questo si gioca la dignitĆ : nellāautostima culturale. La vostra gente non ĆØ la āserie Bā della societĆ e di nessuno. Ha una storia ricca che va accettata, apprezzata e incoraggiata. I semi del Regno sono stati piantati in queste terre. Abbiamo il dovere di riconoscerli, prendercene cura e proteggerli perchĆ© niente di quello che Dio ha piantato di buono si secchi a causa di interessi falsi che diffondono dappertutto la corruzione e crescono spogliando i piĆ¹ poveri. Avere cura delle radici ĆØ tutelare il ricco patrimonio storico, culturale e spirituale che questa terra per secoli ha saputo amalgamare. Impegnatevi e alzate la voce contro la desertificazione culturale e spirituale dei vostri popoli, che produce unāindigenza radicale perchĆ© lascia senza quella indispensabile immunitĆ vitale che mantiene la dignitĆ nei momenti di maggiore difficoltĆ .
Nellāultima lettera pastorale, voi affermate: Ā«Ultimamente la nostra regione ĆØ stata colpita dalla migrazione fatta in un modo nuovo, essendo di massa e organizzata, e ciĆ² ha messo in evidenza i motivi che causano una migrazione forzata e i pericoli che essa comporta per la dignitĆ della persona umanaĀ» (SEDAC,Ā Messaggio al Popolo di Dio e a tutti gli uomini di buona volontĆ , 30 novembre 2018).
Molti dei migranti hanno volto giovane, cercano qualcosa di meglio per le loro famiglie, non temono di rischiare e lasciare tutto pur di offrire le condizioni minime che garantiscano un futuro migliore. Su questo non basta solo la denuncia, ma dobbiamo annunciare concretamente una ābuona notiziaā. La Chiesa, grazie alla sua universalitĆ , puĆ² offrire quellāospitalitĆ fraterna e accogliente in modo che le comunitĆ di origine e quelle di arrivo dialoghino e contribuiscano a superare paure e diffidenze e rafforzino i legami che le migrazioni, nellāimmaginario collettivo, minacciano di spezzare .āAccogliere, proteggere, promuovere e integrareā possono essere i quattro verbi con cui la Chiesa, in questa situazione migratoria, coniuga la sua maternitĆ nellāoggi della storia (cfr Sinodo sui Giovani,Ā Documento finale, 147).
Tutti gli sforzi che potrete compiere gettando ponti tra comunitĆ ecclesiali, parrocchiali, diocesane, come pure mediante le Conferenze episcopali saranno un gesto profetico della Chiesa che in Cristo ĆØ Ā«segno e strumento dellāintima unione con Dio e dellāunitĆ di tutto il genere umanoĀ» (Cost. dogm.Ā Lumen gentium, 1). CosƬ la tentazione di limitarsi alla mera denuncia svanisce e si attua lāannuncio della Vita nuova che il Signore ci dona.
Ricordiamo lāesortazione di San Giovanni: Ā«Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessitĆ , gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui lāamore di Dio? Figlioli, non amiamo a parole nĆ© con la lingua, ma con i fatti e nella veritĆ Ā» (1 GvĀ 3,17-18).
Tutte queste situazioni pongono domande, sono situazioni che ci chiamano alla conversione, alla solidarietĆ e a unāazione educativa incisiva nelle nostre comunitĆ . Non possiamo rimanere indifferenti (cfr Sinodo sui Giovani,Ā Documento finale, 41-44). Il mondo scarta, lo sappiamo e ne soffriamo; laĀ kenosisĀ di Cristo no, lāabbiamo sperimentato e continuiamo a sperimentarlo nella nostra stessa carne con il perdono e la conversione. Questa tensione ci costringe a chiederci continuamente: da che parte vogliamo stare?
LaĀ kenosisĀ di Cristo ĆØ sacerdotale
Sono ben noti lāamicizia di Mons. Romero con il P. Rutilio Grande e lāimpatto che lāassassinio di questāultimo ebbe sulla sua vita. Ć stato un avvenimento che ha marchiato a fuoco il suo cuore di uomo, di sacerdote e di pastore. Romero non era un amministratore di risorse umane, non gestiva persone o organizzazioni, sentiva con amore di padre, amico e fratello. Una misura un poā alta, ma una misura utile per valutare il nostro cuore episcopale, una misura davanti alla quale possiamo chiederci: quanto mi tocca la vita dei miei preti? Quanto riesco a lasciarmi colpire da ciĆ² che vivono, dal piangere i loro dolori, dal festeggiare e gioire per le loro gioie? Il funzionalismo ecclesiale e il clericalismo ā cosƬ tristemente diffuso, che rappresenta una caricatura e una perversione del ministero ā si comincia a misurarlo con queste domande. Non ĆØ questione di cambiamenti negli stili, nelle maniere o nel linguaggio ā tutte cose certamente importanti ā, ma soprattutto ĆØ una questione di impatto e della capacitĆ che i nostri programmi episcopali abbiano spazio per ricevere, accompagnare e sostenere i nostri sacerdoti, abbiano āspazio realeā per occuparci di loro. Questo fa di noi dei padri fecondi.
Su di loro normalmente ricade in modo speciale la responsabilitĆ che questo popolo sia il popolo di Dio. Sono in prima linea. Portano sulle spalle il peso della giornata e il caldo (cfrĀ MtĀ 20,12), sono esposti a una serie di situazioni quotidiane che possono renderli piĆ¹ vulnerabili e, pertanto, hanno anche bisogno della nostra vicinanza, della nostra comprensione e dellāincoraggiamento, della nostra paternitĆ . Il risultato del lavoro pastorale, dellāevangelizzazione nella Chiesa e della missione non si basa sulla ricchezza dei mezzi e sulle risorse materiali, o sulla quantitĆ di eventi o attivitĆ che realizziamo, ma sullaĀ centralitĆ della compassione: una delle grandi caratteristiche che come Chiesa possiamo offrire ai nostri fratelli. LaĀ kenosisĀ di Cristo ĆØ lāespressione massima della compassione del Padre. La Chiesa di Cristo ĆØ la Chiesa della compassione, e questo inizia a casa. Ć sempre buona cosa chiederci come pastori: quanto mi tocca la vita dei miei sacerdoti? Sono capace di essere un padre o mi consolo con lāessere un mero esecutore? Mi lascio scomodare? Ricordo le parole di Benedetto XVI allāinizio del suo pontificato parlando ai suoi connazionali: Ā«Cristo non ci ha promesso una vita comoda. Chi cerca la comoditĆ con Lui ha sbagliato strada. Egli ci mostra il percorso che porta alle cose grandi, al bene, a una vita umana autenticaĀ» (Discorso ai pellegrini tedeschi, 25 aprile 2005).
Sappiamo che il nostro lavoro, nelle visite e negli incontri che svolgiamo, specialmente nelle parrocchie, ha una dimensione e una componente amministrativa che ĆØ necessario portare avanti. Bisogna assicurarsi che venga fatto, ma questo non significa che spetti a noi utilizzare il poco tempo che abbiamo in adempimenti amministrativi. Nelle visite, la cosa fondamentale e che non possiamo delegare ĆØ lāascolto. Ci sono tante cose che facciamo ogni giorno che dovremmo affidare ad altri. Quello che non possiamo delegare, invece, ĆØ la capacitĆ di ascoltare, la capacitĆ di seguire la salute e la vita dei nostri sacerdoti. Non possiamo delegare ad altri la porta aperta per loro. Porta aperta per creare le condizioni che rendano possibile la fiducia piĆ¹ che la paura, la sinceritĆ piĆ¹ che lāipocrisia, lo scambio franco e rispettoso piĆ¹ che il monologo disciplinare.
Ricordo le parole di Rosmini: Ā«Certo, solo grandi uomini possono formare altri grandi uomini [ā¦]. Nei primi secoli, la casa del vescovo era il seminario dei preti e dei diaconi; la presenza e la santa conversazione del loro prelato era unāinfuocata lezione, continua, sublime, dove si apprendeva la teoria nelle sue dotte parole, congiunta alla pratica nelle sue assidue occupazioni pastorali. E in tal modo accanto agli Alessandri si vedevano allora crescere bellamente i giovani AtanasiĀ» (Delle cinque piaghe della santa Chiesa, Brescia 1966, 40).
Ć importante che il sacerdote trovi il padre, il pastore in cui ārispecchiarsiā e non lāamministratore che vuole āpassare in rivista le truppeā. Ć fondamentale che, con tutte le cose in cui ci differenziamo e anche quelle in cui non siamo dāaccordo e le discussioni che possono esserci (ed ĆØ normale e auspicabile che ci siano), i preti vedano nel vescovo un uomo capace di spendersi ed esporsi per loro, di farli andare avanti e tendere loro la mano quando si trovano impantanati.Ā Un uomo di discernimento che sappia orientareĀ e trovare vie concrete e praticabili nei diversi incroci di ogni storia personale.
La parola autoritĆ deriva etimologicamente dalla radice latinaĀ augereĀ che significa aumentare, promuovere, far progredire. LāautoritĆ del Pastore consiste in particolare nellāaiutare a crescere, nel promuovere i suoi presbiteri, piuttosto che nel promuovere sĆ© stesso ā questo lo fa uno scapolo ā. La gioia del padre/pastore ĆØ vedere che i suoi figli sono cresciuti e sono stati fecondi. Fratelli, che sia questa la nostra autoritĆ e il segno della nostra feconditĆ .
LaĀ kenosisĀ di Cristo ĆØ povera
Fratelli, sentire con la Chiesa ĆØ sentire con il popolo fedele, il popolo di Dio che soffre e spera. Ć sapere che la nostra identitĆ ministeriale nasce e si capisce alla luce di questa appartenenza unica e costitutiva del nostro essere. In questo senso, vorrei ricordare con voi ciĆ² che SantāIgnazio scriveva a noi gesuiti: Ā«la povertĆ ĆØ madre e muroĀ», genera e sostiene. Madre, perchĆ© ci chiama alla feconditĆ , alla generativitĆ , alla capacitĆ di donazione che sarebbe impossibile in un cuore avaro o che cerca di accumulare. E muro, perchĆ© ci protegge da una delle tentazioni piĆ¹ sottili che noi consacrati dobbiamo affrontare, la mondanitĆ spirituale: il rivestire di valori religiosi e āpiiā la sete di potere e di protagonismo, la vanitĆ e persino lāorgoglio e la superbia. Muro e madre che ci aiutano ad essere una Chiesa sempre piĆ¹ libera perchĆ© centrata nellaĀ kenosisĀ del suo Signore. Una Chiesa che non vuole che la sua forza stia ā come diceva Mons. Romero ā nellāappoggio dei potenti o della politica, ma che si svincoli con nobiltĆ per camminare sorretta unicamente dalle braccia del Crocifisso, che ĆØ la sua vera forza. E questo si traduce in segni concreti ed evidenti; questo ci interroga e ci spinge ad un esame di coscienza sulle nostre scelte e prioritĆ nellāuso delle risorse, delle influenze e delle posizioni. La povertĆ ĆØ madre e muro perchĆ© custodisce il nostro cuore perchĆ© non scivoli in concessioni e compromessi che indeboliscono la libertĆ e laĀ parresiaĀ a cui il Signore ci chiama.
Fratelli, prima di concludere, mettiamoci sotto il manto della Vergine, preghiamo insieme perchĆ© ella custodisca i nostri cuori di Pastori e ci aiuti a servire meglio il Corpo di suo Figlio, il santo Popolo fedele di Dio che cammina, vive e prega qui in America Centrale.Ā GesĆ¹ vi benedica e la Vergine Maria vi protegga. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.Ā Grazie!