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L'episcopato Usa a confronto con Francesco

Papa Francesco ha ricevuto oggi in Vaticano una delegazione di vescovi statunitensi. Una Chiesa, quella statunitense, che sta sperimentando nuove forme di pastorale sociale. Le diocesi di Browsville e Baltimora, per esempio, hanno deciso di offrire una carta di identità parrocchiale ai migranti senza documenti per consentirgli di accedere a dei servizi base. Le arcidiocesi di Los Angeles e di Washington hanno istituito un sistema legale che consenta di richiedere la cittadinanza ai bambini nati negli Usa e figli di genitori senza documenti.

Sos Daca

A Indianapolis e San Francisco, riferisce il Sir, i migranti vengono accompagnati nel percorso legale con l’agenzia dell’immigrazione e diverse agenzie offrono supporto per l’iscrizione scolastica e il sostegno psicologico soprattutto dei bambini separati dai genitori. La diocesi di Jackson ha risposto all’emergenza scatenata dai raid dello scorso agosto, che hanno portato alla deportazione di diversi migranti che hanno dovuto abbandonare i loro figli perché nati negli Usa e quindi cittadini statunitensi. Il Daca è una norma che autorizzava il differimento della deportazione per tutti quegli immigrati giunti bambini negli Usa al seguito di genitori senza documenti. Il Daca ha consentito agli immigrati di studiare, lavorare, pagare le tasse e servire il Paese nei modi più vari. Molti di questi giovani, genitori a loro volta, sono leader nelle parrocchie e nelle comunità cattoliche ed evangeliche. Una delle ultime statistiche sui nuovi nati certifica che 256mila bambini hanno almeno un genitore che rientra nel programma del Daca, precisa il Sir. La Corte Suprema discute casi che mettono in dubbio la legittimità delle decisioni di alcuni tribunali intervenuti sull’ordine esecutivo del presidente Trump che abrogava di fatto il Daca,che   ha consentito agli immigrati di studiare, lavorare, pagare le tasse e servire il Paese nei modi più vari. Molti di questi giovani, genitori a loro volta, sono leader nelle parrocchie e nelle comunità cattoliche ed evangeliche.

Nel segno di San Giovanni Paolo II

Il presidente americano Jimmy Carter, ricevendo Giovanni Paolo II alla Casa Bianca nel 1979, gli si rivolse in termini schietti: “Lei ci ha costretti a riesaminare noi stessi. Ci ha ricordato il valore della vita umana e che la forza spirituale è la risorsa più vitale delle persone e delle nazioni”. E aggiunse: “L’aver cura degli altri ci rende più forti e ci dà coraggio, mentre la cieca corsa dietro fini egoistici (avere di più anziché essere di più) ci lascia vuoti, pessimisti, solitari, timorosi”. Il New York Times scrisse: “Quest’uomo ha un potere carismatico sconosciuto a tutti gli altri capi del mondo. È come se Cristo fosse tornato fra noi”. Era il più bell’elogio che si potesse fare del successore di Pietro. Quando Giovanni Paolo II parlava ai “favelados” di Rio de Janeiro, ai lebbrosi di Marituba in Amazzonia, agli indios di Oaxaca in Messico o ai pescatori di Baguio nelle Filippine; quando condannava con forza ogni violazione dei diritti dell’uomo davanti a dittatori come Marcos (Filippine), Pinochet (Cile), Stroessner (Paraguay), Mobutu (Zaire); quando parlava del valore della cultura africana (in Benin) e dello “sviluppo dal volto umano” (in Gabon), egli incideva fortemente nelle coscienze dei popoli, non solo in quelli che lo ascoltavano e vedevano in quel momento. Tra i primi a intuire l’importanza di un apostolato globetrotter fu Piero Gheddo, protagonista per mezzo secolo dell’animazione pastorale del Pime (il Pontificio istituto missioni estere) e tra gli estensori di “Ad Gentes”, il decreto del Concilio Vaticano II sull’attività missionaria della Chiesa. «Solo un Papa giramondo può portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra», intuì padre Gheddo, grazie al quale nel 1973 l’Italia scoprì per la prima volta una religiosa con il sari bianco bordato di azzurro che poi diventò per tutti Madre Teresa di Calcutta. I viaggi di Karol Wojtyla incrociarono le frontiere ferite storico-sociali del suo tempo e la sua passione più grande restava l’annuncio del Vangelo.

Dopo l'11 settembre

Dopo la distruzione delle Torri Gemelle neppure il dialogo che era stato così faticosamente avviato sul piano religioso fu più lo stesso. E non perché l’islam fosse direttamente implicato negli attentati di New York e di Washington; ma, questo specialmente, per il fatto che la religione islamica era stata strumentalizzata, usata a copertura di una ideologia del terrore, di una logica di morte. E, la tragica conseguenza, fu che cristianesimo e islam si ritrovarono divisi, perché legati a mondi apparentemente inconciliabili, nemici. E, ancora una volta, Giovanni Paolo II fu il solo a sostenere le “ragioni” della pace, a parlare di quel Dio che è, per tutti,  clemenza, misericordia. Non solo, ma invitò nuovamente ad Assisi i rappresentanti delle Chiese cristiane, dell’ebraismo e dell’islam, impegnandoli solennemente a portare sulla terra «giustizia e pace, perdono e vita, amore». Un impegno che, di fatto, rendeva irreversibile il camminare insieme delle religioni. E, a maggior ragione, delle religioni abramitiche, che hanno in comune la rivelazione di un Dio unico e assoluto.

 

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