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Le tre passioni di Paolo VI

Domani Papa Francesco terrà il concistoro pubblico durante il quale annuncerà le date e i luoghi decisi per la canonizzazone di alcuni beati tra i quali Paolo VI e Oscar Arnulfo Romero. Monsignor Guido Mazzotta, decano della facoltà di Filosofia alla Pontificia Università Urbaniana, è stato relatore della causa per Giovan Battista Montini ed ha lavorato alla “positio” fin dal 1999. Ci riceve nella sua abitazione nel rione Monti, accanto alla chiesa dedicata alla Madonna, per approfondire la figura di questo grande Papa, a volte incompreso.

Monsignor Mazzotta, qual è l’aspetto principale della santità di Paolo VI?

“Vorrei sottolineare tre cose. La prima è il suo amore viscerale a Gesù. Quando entra arcivescovo a Milano nella sua prima lettera pastorale scrive 'Cristo ci è necessario'. E lo stesso tema lo trattava da giovane prete nella Fuci. Io sono stato assistente della Fuci: i vecchi fucini mi ricordavano il congresso di Macerata del 1928 quando nella cattedrale infuocò i giovani universitari parlando dell'amore per Gesù. Quando uscì i fascisti lo malmenarono, sia perché era figlio di un parlamentare sturziano, quindi di famiglia antifascista, sia perché vedevano il successo che aveva con i giovani sottraendoli all'educazione del regime. Un altro elemento: l'anelito per le anime. Ad esempio, Montini era molto amico di don Giuseppe De Luca, figura di spicco del panorama culturale italiano, al punto che l'ultima sera prima di partire per Milano l'arcivescovo andò a cena nella sua casa al Colle Oppio. Nel 1931 Montini lo aveva invitato a collaborare alla formazione dei giovani ma De Luca si rifiutò e l'assistente fucino gli scrisse una bellissima lettera in cui afferma, tra le altre cose, 'tu scegli i libri, io vorrei scegliere le anime'. Non si capisce nulla di Montini se di lui si dà una lettura politica, sebbene fosse anche un finissimo politico: la sua passione era squisitamente apostolica. Era talmente innamorato di Gesù che voleva condividere la gioia di tale scoperta. Era il miglior servizio possibile alla gioventù universitaria e alla gente. Le deposizioni più belle per la causa di canonizzazione le hanno fatte proprio i suoi ex fucini con i quali ha avuto un rapporto di paternità sacerdotale. Quando incontrava una persona, non aveva occhi che per lui, gli dedicava tutte le sue attenzioni. Un aneddoto: fra i suoi amici all'Accademia ecclesiastica in piazza della Minerva c'era il nipote di Rampolla, il cardinale che non divenne Papa per il veto dell'imperatore d'Austria. Questo nipote aveva studiato il sanscrito. E Montini gli suggeriva di andarsene in India, dove, diceva, c'è una cultura intrinsecamente religiosa senza conoscere Gesù: 'Pensa se lo conoscessero: perché non ti metti al servizio di questa grande missione?'. E il terzo aspetto, una sintesi dei primi due, è la passione per la Chiesa, per la Chiesa missionaria”.

Paolo VI fu un papa moderno?

“Senza dubbio. Quando arriva a Milano indice la missione cittadina per l'annuncio della paternità di Dio nella città secolarizzata. Va a questioni di fondo e in questo senso era veramente moderno e voleva difendere l'aspetto religioso nella modernità. La collegialità episcopale è stata sperimentata e concretamente avviata da lui. Cercava sempre di tener conto di tutti i punti di vista. Lo faceva fin dai tempi della Fuci: se qualcuno diceva una cosa sensata ma era in minoranza, lui diceva che quell'idea non andava cestinata ma presa come ipotesi di studio. La capacità di Montini è stata quella di sognare ma di proporre modi concreti di realizzazione del sogno. Ecco dov'è la sua grandezza dal punto di vista storico”.

Paolo VI e il Concilio: come ha vissuto Montini da una parte le critiche degli ultraconservatori e dall’altra le derive, gli eccessi postconciliari?

“Mi raccontò il cardinale Poma, all'epoca rettore del seminario di Pavia, che quando il 25 gennaio 1959 Giovanni XXIII annunciò il Concilio, l'indomani alcuni sacerdoti della metropolia lombarda andarono a trovare il cardinale Montini pensando di trovarlo entusiasta. E invece era pensieroso: 'Voi non sapete – disse – cosa significhi un Concilio, quali dinamiche si inneschino'. Lui già vedeva le difficoltà, i problemi che sarebbero sorti… aveva una lucidità intellettuale incredibile. Non ci fosse stato lui a governarlo… L'11 ottobre 1962 si aprì il Concilio e fino alla fine di novembre non si produsse molto. Alla fine di ottobre ci fu una votazione per avere l'orientamento dell'assemblea su quattro punti proposti da Papa Giovanni XXIII che di lì a qualche settimana si sarebbe ammalato. Il 4 dicembre il cardinale di Milano fece un intervento in aula con cui diede un senso di compiutezza all'architettura del Concilio. Con lui concordò subito il cardinale Suenens, arcivescovo di Bruxelles. Mi hanno detto testimoni oculari che quando si diffuse la notizia della malattia del Papa i cardinali più anziani di Montini si fermavano per cedergli il passo. Lo stesso Roncalli disse anche pubblicamente in un'udienza a pellegrini milanesi che stava tenendo caldo il posto per il loro cardinale”.

Montini è stato il Papa di “Populorum Progressio” e di “Humanae Vitae”. Più progressista o conservatore?

“Se si vuole fare un discorso serio bisogna uscire da questo schematismo. All'epoca, nel 1968, io ero studente alla Sapienza. Prima che il movimento studentesco venisse egemonizzato dalla sinistra, eravamo anti ogni cosa e avevamo visto nell'appassionata difesa del carattere umano dei riti coniugali quasi un'opposizione alla società che pretendeva di meccanizzare tutto. Il rapporto erotico tra uomo e donna trascende e non può ridursi a un caso della meccanica. Fu una visione profetica, e la profezia non viene capita. Il carattere umano del rapporto veniva salvaguardato dalla Humanae Vitae. Paradossalmente era più a sinistra di ogni sinistra. Se ci si pensa oggi bisogna riconoscere che aveva ragione Paolo VI. La Populorum Progressio scandalizzò soprattutto le destre europee e americana. E invece sa chi gli ha fatto un monumento?”

Prego.

“Papa Benedetto nell'enciclica 'Caritas in Veritate'. Non solo perché la cita continuamente ma perché sviluppa i temi che erano contenuti nel documento di Paolo VI”.

Quanto c’è di fondato sui presunti contrasti con Pio XII?

“Partiamo dal fatto che il rapporto tra i due fu di intensa frequentazione, di dedicazione assoluta, potremmo dire anche di affetto. Quando Tardini passò agli affari straordinari, bisognava nominare il sostituto. Pio XI, che non era certo un Papa molle, aveva il suo candidato, quello che poi sarà il cardinale Confalonieri. Pacelli, allora Segretario di Stato, si oppose e sostenne Montini. Il suo segretario personale, il futuro cardinale Casaroli, ha testimoniato come Pacelli diceva che 'Montini lavora presto e bene'. E la spuntò. Questo per spiegare il rapporto di fiducia che c'era tra i due. Cosa successe? Bisogna tener presente la dinamica degli ultimi anni della guerra, la situazione italiana, l'organizzazione dell'apostolato. Montini veniva dalla Fuci, quella che si può definire l'area più 'liberal', dall'altra parte c'era Gedda, il cosiddetto partito romano, il cosiddetto pentagono vaticano. Si ipotizzava per l'Italia post bellica una soluzione conservatrice di tipo portoghese o salazariano, mentre Montini voleva saldare compiutamente la Chiesa e il laicato cattolico alla democrazia. Si trovava così ad essere del tutto naturalmente l'interfaccia di De Gasperi. Non si incontrarono spesso ma si scambiavano messaggi. La destra curiale era contro De Gasperi (parliamo degli anni tra il '44 e il '46). Addirittura si mostrava a favore di una duplice rappresentanza politica dei cattolici, tra cui i cattocomunisti di Franco Rodano, consigliere di Togliatti. Ma alla fine Pio XII dava ascolto a Montini. Dopo la vittoria delle elezioni della Dc e di Gedda alle elezioni del 1948, in Pio XII crebbe il timore che il Comune di Roma finisse in mano ai comunisti. L'idea era quella di fare una lista, capeggiata da Sturzo, che comprendesse tutte le forze anticomuniste, dalla Dc al Msi. E qui va detto che Montini si adoperò per far fallire il progetto. Sturzo si ritirò il giorno in cui scadevano le candidature e la cosa cadde. Quindi c'era tensione. Su questo sfondo occorre ripensare la destinazione milanese di Montini. Tre personalità particolarmente significative convergono in un punto: il cardinale Siri, così dice un suo biografo, a proposito dell''esilio' di Montini disse che aveva sentito parlare di motivi politici, perché aveva incontrato leaders del comunismo internazionale all'insaputa del Pontefice. Cosa analoga afferma il card. Casaroli, che riferisce di voci sentite in Segreteria di Stato. La stessa cosa dice l'archeologa Margherita Guarducci, figlia spirituale di Montini. Così mi è venuto in mente di controllare la corrispondenza con don De Luca, che è stata pubblicata. Ho iniziato da giugno del '54 (Montini fu nominato arcivescovo di Milano il 3 novembre 1954) e a metà agosto noto qualcosa di strano. Muore il card. Schuster. Monsignor Montini lascia Roma nella seconda metà del mese. De Luca gli scrive: 'Quando torni? Qui ci sono cose serie che bollono in pentola. Ti devo informare. Ma, aggiunge, qualunque cosa tu sentirai di me, interroga prima me'. Cosa significa? Voleva informarlo delle voci sul suo 'esilio' a Milano. Ma c'è l'aspetto personale. L'ho fatta leggere ad esperti di De Luca e tutti hanno confermato la mia idea”.

Cioè?

“De Luca ha invitato a cena Montini e gli ha fatto trovare Togliatti. Montini il giorno dopo avrebbe dovuto informare il Papa e invece non lo fece. Per fortuna, aggiungo, perché altrimenti non sarebbe andato a Milano e probabilmente non sarebbe diventato Papa. Gli avversari di Montini hanno saputo questa cosa direttamente da De Luca, se l'era fatta sfuggire. Per questo gli scrive 'se senti qualcosa su di me, interroga prima me'. I nemici di Montini informano Pio XII e lì si spezza la piena fiducia del Pontefice, anche se tra i due poi ci fu un chiarimento”.

50 anni fa Paolo VI rimosse il cardinal Lercaro dalla sede di Bologna: cosa lo spinse a prendere questa decisione? Ed è vero che se ne pentì?

“Il problema non fu Lercaro ma la sua successione. Il cardinale voleva Dossetti come suo successore. In qualche modo anche durante il Concilio lo stava preparando. Lercaro era uno dei moderatori e si portò un perito personale, appunto Dossetti che aveva esperienza di assemblee parlamentari, era stato membro della Costituente italiana, e si giovava di questo 'know how' per imporre la sua presenza. Il segretario del Concilio, che poi diventerà cardinale, Pericle Felici, si lamentò col Papa il quale disse, riferendosi a Dossetti, 'Non è quello il suo posto'. Dico questo perché Dossetti era una vecchia conoscenza di Montini. Si fanno tanti discorsi sul distacco dal potere ma poi nella pratica non va sempre così: Dossetti abbandonò il rettore della Cattolica padre Gemelli perché aveva pensato che fosse Montini l'uomo su cui puntare: lo sentii dire dallo storico Melloni in una parrocchia romana. In realtà Dossetti non divenne mai un 'intimo' di Montini nella Fuci. Quando poi fu nominato Poma come coadiutore con diritto di successione nacque l'ostilità nei confronti di Montini da parte della cosiddetta 'scuola di Bologna'. Il 'caso' Lercaro va compreso in questo quadro”.

In un recente libro si solleva il sospetto di un ricatto del cardinale Poletti a Paolo VI. Cosa c'è di vero?

“Ho fatto fare ricerche per venirne a capo. Il vescovo di Novara Gilla Vincenzo Gremigni nell'estate del 1962 partecipava a vari convegni di pastorale che faceva un prete di Milano e se la prendeva con “L'Italia”, il giornale cattolico dell'Italia settentrionale, diretto da Giuseppe Lazzati, futuro rettore della Cattolica, con il placet dell'arcivescovo di Milano. Per il Natale di quell'anno mons. Gremigni scrive a Montini gli auguri e gli annuncia che dal 1. gennaio la sua diocesi non avrebbe più preso le copie previste de “L'Italia”. Montini lascia passare un po' di giorni e il 2 gennaio 1963 gli risponde, mandando copia della lettera (fatta con la carta carbone) in Segreteria di Stato, affinché il sostituto Dell'Acqua la mostrasse a Giovanni XXIII. La lettera arriva a Novara e la mattina dopo, davanti ai suoi due ausiliari, uno dei quali era Poletti, futuro vicario di Roma, e l'altro Franzi, mons. Gremigni afferma 'questa lettera è la mia condanna a morte' perché era evidente che con Montini destinato a diventare Papa lui era fuori dai giochi. Ma le sue parole furono profetiche in modo incredibile, perché quella notte, il 7 gennaio, il vescovo morì. La mattina dopo Montini, che ogni volta che aveva avuto un contrasto con qualcuno si recava a pregare sulla sua tomba, andò a Novara per pregare davanti alla salma di Gremigni. Poletti si convinse che era andato fin lì per avere indietro la lettera. Invece Montini non la chiese e Poletti, lo racconta lui stesso, irritualmente, si tiene la lettera. E non la consegna neppure al nuovo vescovo. Alcuni mesi dopo che fu creato cardinale, Poletti portò a Paolo VI la lettera. Il Papa gli disse di aprirla e di leggerla. Montini aveva scritto più o meno: 'Ma come, dopo l'esperienza che abbiamo fatto del Concilio, dell'affetto collegiale, lei rompe l'unità dell'episcopato in Lombardia e Piemonte?'. Era un inno all'unità della Chiesa”.

La vicenda di Aldo Moro segnò profondamente Montini. E’ vero che tentò una trattativa segreta per salvarlo?

“Più che una trattativa segreta, attraverso il responsabile dell'assistenza religiosa alle carceri, che era milanese, don Cesare Curioni, cercò di arrivare ai brigatisti, attraverso quelli già detenuti. Qualche risultato lo avevano ottenuto, però va detto che Paolo VI per rispetto all'autonomia dello Stato italiano li sottopose ai responsabili della Repubblica, senza agire in maniera autonoma. Era pronto a pagare un riscatto ma i brigatisti volevano la liberazione di detenuti, per ottenere lo status di combattenti. Da lì il drammatico appello per la liberazione 'senza condizioni' di Moro, purtroppo inascoltato”.

Quanto influisce la figura di Paolo VI sull’attuale pontificato?

“Da storico devo dire che il meglio che ha questo pontificato è già tutto in Montini. Anche Wojtyla il meglio che ha avuto è ereditato da Montini. Penso ai viaggi, che per Paolo VI avevano un significato simbolico. Dal punto di vista religioso sono delle vere e proprie encicliche. Il primo gesto che fa qual è? Andare in Terra Santa per consegnare a Cristo la sua Chiesa, nella terra 'da dove venne Pietro e dove nessuno dei suoi successori è mai tornato'. Era un modo per dire: bisogna tornare alle radici, allo spirito originario del Vangelo. Alle Nazioni Unite Montini non fa un discorso politico, se non la perorazione per la pace e il riconoscimento del lavoro dell'Onu, sottolineato dal segretario generale U Thant. Ma è essenzialmente un discorso religioso. Tra l'altro il giorno dopo, appena tornato, il 5 ottobre 1965, scese nell'aula dove erano riuniti i padri conciliari che avevano già votato la decisione di allegare agli atti il discorso del Papa al Palazzo di Vetro. Montini è colui che si inginocchia e bacia i piedi all'arcivescovo ortodosso inviato dal patriarca, destando scandalo nei benpensanti. E invece era l'umiltà stessa di Gesù che si inginocchia davanti ai discepoli, un gesto di valenza spirituale straordinario. Le parole che pronunciò a Nazareth 'questa è la scuola del Vangelo' sono inserite nella liturgia delle ore, caso unico per un Papa moderno”.

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