E'completamente dedicato alla figura di San Toribio de Mongrovejo (1538-1606), arcivescovo di Lima e patrono dell'episcopato latinoamericano, il discorso che Papa Francesco rivolge ai vescovi peruviani nel Palazzo arcivescovile di Lima. “Oggi lo chiameremmo vescovo 'di strada'”, dice il Pontefice soffermandosi sull'apostolato dello storico uomo di Chiesa e sul suo rapporto con le popolazioni indigene dell'epoca (“Con il terzo Concilio di Lima dispose che i catechismi fossero realizzati e tradotti in quechua e in aymara. Spinse il clero a studiare e conoscere la lingua dei loro fedeli per poter amministrare i Sacramenti in modo comprensibile”). Si sofferma poi sul tema dell'”unità” ecclesiale: “Sappiamo bene che questa unità e questo consenso fu preceduta da grandi tensioni e conflitti”. “Non possiamo negare le tensioni, le diversità; è impossibile una vita senza conflitti – prosegue il Santo Padre -. Questi richiedono da noi, se siamo uomini e cristiani, di affrontarli e accettarli. Ma accettarli in unità, in dialogo onesto e sincero, guardandoci in faccia e e guardandoci dalla tentazione o di ignorare quanto accaduto o di restarne prigionieri e senza orizzonti che permettano di trovare strade che siano di unità e di vita”. “E' fonte di ispirazione, nel nostro cammino di Conferenza Episcopale, ricordare che l'unità prevarrà sempre sul conflitto“, aggiunge. E conclude: “Cari fratelli, lavorate per l'unità, non rimanete prigionieri di divisioni che riducono e limitano la vocazione alla quale siamo stati chiamati: essere sacramento di comunione. Non dimenticate che ciò che attirava nella Chiesa primitiva era come si amavano. Questa era – è e sarà – la migliore evangelizzazione“. Di seguito, il testo completo del discorso pronunciato dal Papa.
Cari fratelli nell’episcopato,
grazie per le parole che mi hanno rivolto il Cardinale Arcivescovo di Lima e il Presidente della Conferenza Episcopale a nome di tutti i presenti. Desideravo trovarmi qui con voi. Conservo un vivo ricordo della vostra visita ad limina dello scorso anno.
Le giornate passate tra voi sono state molto intense e gratificanti. Ho potuto ascoltare e vivere le diverse realtà che formano questo Paese e condividere da vicino la fede del santo Popolo fedele di Dio, che ci fa tanto bene. Grazie per l’opportunità di poter “toccare” la fede del Popolo che Dio vi ha affidato.
Il motto di questo viaggio ci parla di unità e di speranza. E’ un programma arduo, ma al tempo stesso stimolante, che ci fa pensare alle imprese di San Toribio di Mongrovejo, Arcivescovo di questa Sede e patrono dell’episcopato latinoamericano, un esempio di «costruttore di unità ecclesiale», come lo definì il mio predecessore San Giovanni Paolo II nel suo primo viaggio apostolica in questa terra.
E’ significativo che questo santo Vescovo sia rappresentato nei ritratti come un “nuovo Mosè”. Come sapete, in Vaticano si conserva un quadro che raffigura San Toribio che attraversa un grande fiume, le cui acque si aprono al suo passaggio come se si trattasse del mar Rosso, perché possa giungere all’altra sponda dove lo aspetta un numeroso gruppo di indigeni. Alle spalle di San Toribio c’è una gran moltitudine di persone, che è il popolo fedele che segue il suo pastore nell’opera dell’evangelizzazione. Questa bella immagine mi offre lo spunto per incentrare su di essa la mia riflessione con voi. San Toribio, l’uomo che ha saputo arrivare all’altra sponda.
Lo vediamo fin dal momento in cui riceve il mandato di venire in queste terre con la missione di essere padre e pastore. Lasciò un terreno sicuro per addentrarsi in un universo totalmente nuovo, sconosciuto e pieno di sfide. Andò verso una terra promessa guidato dalla fede come «fondamento di ciò che si spera» (Eb 11,1). La sua fede e la sua fiducia nel Signore lo spinsero allora e lo spingeranno per tutta la sua vita a passare all’altra riva, dove Lui lo aspettava in mezzo a una moltitudine.
1. Volle andare all’altra riva in cerca dei lontani e dei dispersi. A tale scopo dovette lasciare le comodità del vescovado e percorrere il territorio affidatogli, in continue visite pastorali, cercando di arrivare e stare là dove c’era bisogno, e quanto c’era bisogno! Andava incontro a tutti per sentieri che, a detta del suo segretario, erano più per le capre che per le persone. Doveva affrontare i più diversi climi e ambienti; «di 22 anni di episcopato, 18 li passò fuori dalla sua città percorrendo per tre volte il suo territorio». Sapeva che questa era l’unica forma di pastorale: stare vicino distribuendo i doni di Dio, esortazione che dava anche continuamente ai suoi presbiteri. Ma non lo faceva con le parole bensì con la sua testimonianza, stando lui stesso in prima linea nell’evangelizzazione. Oggi lo chiameremmo un vescovo “di strada”. Un vescovo con le suole consumate dal camminare, dall’andare incontro per «annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno». Come sapeva bene questo San Toribio! Senza paura e senza repulsioni si addentrò nel nostro continente per annunciare la Buona Notizia.
2. Volle arrivare all’altra riva non solo geografica ma anche culturale. Fu così che promosse con molti mezzi un’evangelizzazione nella lingua nativa. Con il terzo Concilio di Lima dispose che i catechismi fossero realizzati e tradotti in quechua e in aymara. Spinse il clero a studiare e conoscer la lingua dei loro fedeli per poter amministrare i Sacramenti in modo comprensibile. Visitando il suo Popolo e vivendo con esso si rese conto che non bastava raggiungerlo solo fisicamente, ma era necessario imparare a parlare il linguaggio degli altri: solo così il Vangelo avrebbe potuto essere capito e penetrare nei cuori. Com’è urgente questa visione per noi, pastori del secolo XXI!, ai quali tocca imparare un linguaggio totalmente nuovo com’è quello digitale, per fare un esempio. Conoscere il linguaggio attuale dei nostri giovani, delle nostre famiglie, dei bambini… Come seppe vedere bene San Toribio, non basta solo arrivare in un posto e occupare un territorio, bisogna poter suscitare processi nella vita delle persone perché la fede metta radici e sia significativa. E a tale scopo dobbiamo parlare la loro lingua. Occorre arrivare lì dove si generano i nuovi temi e paradigmi, raggiungere con la Parola di Dio i nuclei più profondi dell’anima delle nostre città e dei nostri popoli. L’evangelizzazione della cultura ci chiede di entrare nel cuore della cultura stessa affinché questa sia illuminata dall’interno dal Vangelo.
3. Volle arrivare all’altra riva della carità. Per il nostro Patrono l’evangelizzazione non poteva avvenire senza la carità. Sapeva infatti che la forma più sublime dell’evangelizzazione era plasmare nella propria vita la donazione di Cristo per amore ad ogni uomo. I figli di Dio e i figli del demonio si manifestano in questo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, e nemmeno chi non ama il suo fratello (cfr Gv 3,10). Nelle sue visite poté constatare gli abusi e gli eccessi che pativano le popolazioni originarie, e così non esitò, nel 1585, a scomunicare il governatore di Cajatambo, affrontando tutto un sistema di corruzione e una rete di interessi che «attirava l’ostilità di molti», compreso il Virrey. Così ci mostra il pastore che sa come il bene spirituale non possa mai essere separato dal giusto bene materiale e tanto più quando è messa a rischio l’integrità e la dignità delle persone. Profezia episcopale che non ha paura di denunciare gli abusi e gli eccessi commessi contro il suo popolo. E in questo modo sa ricordare all’interno della società e delle comunità che la carità va sempre accompagnata dalla giustizia e non c’è autentica evangelizzazione che non annunci e denunci ogni mancanza contro la vita dei nostri fratelli, specialmente dei più vulnerabili.
4. Volle arrivare all’altra riva nella formazione dei suoi sacerdoti. Fondò il primo seminario dopo il Concilio [di Trento] in questa zona del mondo, promuovendo così la formazione del clero nativo. Capì che non bastava andare da tutte le parti e parlare la stessa lingua, era necessario che la Chiesa potesse generare propri pastori locali e così sarebbe diventata madre feconda. Perciò difese l’ordinazione dei meticci – quando essa era molto discussa – cercando di favorire e stimolare che il clero, se doveva distinguersi in qualcosa, fosse per la santità dei pastori e non per l’origine etnica. E questa formazione non si limitava solo allo studio nel seminario, ma proseguiva nelle continue visite che faceva loro. Lì poteva toccare con mano lo stato dei suoi preti, e prendersene cura. Racconta la leggenda che ai vespri di Natale sua sorella gli regalò una camicia da indossare durante le feste. Quel giorno lui andò a far visita a un prete e vedendo le condizioni in cui viveva, si tolse la camicia e gliela diede. E’ il pastore che conosce i suoi sacerdoti. Cerca di raggiungerli, accompagnarli, stimolarli, ammonirli – ricordò ai suoi preti che erano pastori e non commercianti e perciò dovevano aver cura degli indigeni e difenderli come figli.[9] Però non lo fa stando alla scrivania, e così può conoscere le sue pecore ed esse riconoscono nella sua voce la voce del Buon Pastore.
5. Volle arrivare all’altra riva, quella dell’unità. Promosse in modo mirabile e profetico la formazione e l’integrazione di spazi di comunione e partecipazione tra le diverse componenti del Popolo di Dio. Lo evidenziò San Giovanni Paolo II quando, ni queste terre, parlando ai Vescovi disse: «Il III Concilio Limense è il risultato di questa tensione, presieduto, incoraggiato e diretto da San Toribio, che diede come frutti un prezioso tesoro di unità nella fede, norme pastorali e organizzative e al tempo stesso valide ispirazioni per l’auspicata integrazione latinoamericana».[10]
Sappiamo bene che questa unità e questo consenso fu preceduta da grandi tensioni e conflitti. Non possiamo negare le tensioni, le diversità; è impossibile una vita senza conflitti. Questi richiedono da noi, se siamo uomini e cristiani, di affrontarli e accettarli. Ma accettarli in unità, in dialogo onesto e sincero, guardandoci in faccia e e guardandoci dalla tentazione o di ignorare quanto accaduto o di restarne prigionieri e senza orizzonti che permettano di trovare strade che siano di unità e di vita. E’ fonte di ispirazione, nel nostro cammino di Conferenza Episcopale, ricordare che l’unità prevarrà sempre sul conflitto.[11] Cari fratelli, lavorate per l’unità, non rimanete prigionieri di divisioni che riducono e limitano la vocazione alla quale siamo stati chiamati: essere sacramento di comunione. Non dimenticate che ciò che attirava nella Chiesa primitiva era come si amavano. Questa era – è e sarà – la migliore evangelizzazione.
6. Per San Toribio giunse il momento di partire per la riva definitiva, verso quella terra che lo aspettava e che andava assaporando nel suo continuo lasciare la sponda. Questa nuova partenza, non la faceva da solo. Come nel quadro che commentavo all’inizio, andava incontro ai santi seguito da una grande moltitudine alle sue spalle. E’ il pastore che ha saputo riempire la sua valigia di volti e di nomi. Essi erano il suo passaporto per il cielo. Al punto che non vorrei tralasciare la nota finale, il momento in cui il pastore consegnava la sua anima a Dio. Lo fece unito al suo popolo e un aborigeno gli suonava il flauto perché l’anima del suo pastore si sentisse in pace. Voglia il cielo, fratelli, che quando dovremo compiere l’ultimo viaggio, possiamo vivere queste cose. Chiediamo al Signore che ce lo conceda.[12]
E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.