Di seguito riportiamo il testo integrale della prolusione del cardinal Gualtiero Bassetti, pronunciata in occasione dell'apertura della sessione invernale del Consiglio episcopale permanente della Cei.
Cari confratelli ed amici,
tra i tanti frutti che ci ha lasciato il recente viaggio di Papa Francesco in Cile e in Perù ce n’è uno che chiama direttamente in causa il nostro ministero episcopale: è l’invito a «chiedere a Dio che ci dia la lucidità di chiamare la realtà col suo nome, il coraggio di chiedere perdono e la capacità di imparare ad ascoltare quello che Lui ci sta dicendo». Essere padri nella fede significa essere umili servitori di tutto il popolo cristiano; pastori che sanno ascoltare, perdonare e, soprattutto, affrontare «la realtà così come ci si presenta» e non come vorremmo che fosse, in base alle nostre idee o ai nostri progetti .
Paolo VI diceva che «uno degli atteggiamenti caratteristici della Chiesa dopo il Concilio è quello d’una particolare attenzione sopra la realtà umana, considerata storicamente; cioè sopra i fatti, gli avvenimenti, i fenomeni del nostro tempo». Non a caso, «una parola del Concilio» che è ormai «entrata nelle nostre abitudini» consiste nello scrutare «i segni dei tempi». Attraverso questa locuzione, concludeva Montini, «il mondo per noi diventa libro» perché la «scoperta dei “segni dei tempi” è un fatto di coscienza cristiana; risulta da un confronto della fede con la vita» .
La nostra lettura del libro del mondo, ieri come oggi, non è, in alcun modo, quella dei politici, degli scienziati o degli intellettuali, ma è quella di pastori che si impegnano a discernere questo libro con la luce di Cristo. Del resto, sono proprio la nostra esperienza cristiana, la frequentazione del Vangelo e la celebrazione dei sacramenti a chiederci – vorrei dire: a imporci – di non restare ai margini di quanto vivono la nostra gente e il nostro Paese.
Ricostruire, ricucire, pacificare
Una sapienza antica ci insegna che «per ogni cosa c’è il suo momento»: c’è «un tempo per demolire e un tempo per costruire», un «tempo per stracciare e un tempo per cucire» e, infine, un «tempo per la guerra e un tempo per la pace» . Questi passi del Qoèlet vanno oggi riformulati con tre verbi che ci guideranno nella riflessione di questi giorni e nell’azione pastorale del prossimo futuro: ricostruire, ricucire e pacificare.
C’è un’urgenza morale di ricostruire ciò che è distrutto. L’Italia è il Paese di una bellezza antica e prodigiosa, ricca di umanità e fede, di paesaggi incantevoli e con un patrimonio culturale unico al mondo. Una bellezza, però, estremamente fragile nel suo territorio, nei suoi borghi medievali, nelle sue città. Tra l’altro, ancora oggi non possiamo dimenticare quelle migliaia di persone che hanno perso tutto con il terremoto. Sentiamo una vicinanza intima e profonda con questi uomini e queste donne. Ricostruire quelle case, riedificare quelle città, significa donare un futuro a quelle famiglie e vuol dire ricostruire la speranza per l’Italia intera.
C’è poi un’urgenza spirituale di ricucire ciò che è sfilacciato. Ricucire la comunità ecclesiale italiana, esortandola a interpretarsi nell’orizzonte della Chiesa universale. Ricucire la società italiana, aiutandola a vivere come corpo vivo che cammina assieme. Occorre riprendere la trama dei fili che si dipana per tutto il Paese con l’attenzione a valorizzarne le tradizioni, le sensibilità e i talenti. Ricucire significa, quindi, unire. Unire la comunità ecclesiale, unire il Paese: da Lampedusa ad Aosta, da Trieste a Santa Maria di Leuca.
C’è infine un’urgenza sociale di pacificare ciò che è nella discordia. Il nostro Paese sembra segnato da un clima di «rancore sociale», alimentato da una complessa congiuntura economica, da una diffusa precarietà lavorativa e dall’emergere di paure collettive. Pacificare la società significa incamminarsi con spirito profetico lungo una strada nuova: quella strada che Giorgio La Pira chiamava «il sentiero di Isaia». Un sentiero di pace che si propone di abbattere «il muro della diffidenza» e di costruire ponti di dialogo.
Ricostruire la speranza, ricucire il Paese, pacificare la società. Tre verbi, tre azioni pastorali, tre sfide concrete per il futuro.
Un’unica famiglia umana
È un futuro che si misura direttamente anche con un fenomeno globale che ha ormai assunto un’enorme rilevanza: mi riferisco alle migrazioni internazionali. Un tema complesso e cruciale, la cui discussione pubblica, però, è troppo spesso influenzata da equivoci, incomprensioni e contese politiche. Per fugare ogni dubbio e per amore alla verità, mi sembra opportuno richiamare un aspetto per noi decisivo. La Chiesa cattolica, sin dalla fondazione, si prende cura dei poveri, degli «scartati» e degli «sconfitti della storia», con uno spirito di totale obbedienza al Vangelo, perché vede nelle loro piaghe il riflesso di quelle di Cristo sulla Croce. I poveri, tutti i poveri, anche quelli forestieri di cui non sappiamo nulla, appartengono alla Chiesa «per diritto evangelico» come disse Paolo VI nel discorso di apertura della II sessione del Concilio Vaticano II. In virtù di questo «diritto evangelico» – e non certo in nome di una rivendicazione sociale – ogni cristiano è chiamato ad andare verso di loro con un atteggiamento di comprensione e compassione.
Proprio per questo, bisogna reagire a una «cultura della paura» che, seppur in taluni casi comprensibile, non può mai tramutarsi in xenofobia o addirittura evocare discorsi sulla razza che pensavamo fossero sepolti definitivamente. Non è chiudendo che si migliora la situazione del Paese. «Avere dubbi e timori non è un peccato» ha affermato Papa Francesco nella Giornata del migrante. Tuttavia, «il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte».
Quest’anno, in particolare, ci ricorda una pagina buia della storia del nostro Paese: le leggi razziali del 1938. In quell’occasione, in un clima di pavida indifferenza collettiva, Pio XI ebbe il coraggio di affermare che «l’antisemitismo è inammissibile» e poi aggiunse: «noi siamo spiritualmente semiti». Oggi, in un contesto estremamente differente, noi possiamo far nostre, senza esitazioni, le parole di Paolo VI nella Populorum progressio. Di fronte all’ostacolo del «razzismo» che impediva di edificare «un mondo più giusto e più strutturato secondo una solidarietà universale», Montini invocò la «carità universale che abbraccia tutti i membri della famiglia umana» . E anche noi, oggi, in nome di Dio e della giustizia, possiamo riconoscerci con gioia come fratelli e sorelle di un’«unica famiglia umana» .
In questa direzione non mancano, infatti, risposte positive e generose. Papa Francesco ha voluto parlarne con gratitudine al corpo diplomatico, auspicando che «le difficoltà che il Paese ha attraversato in questi anni, le cui conseguenze permangono, non portino a chiusure e preclusioni, ma anzi ad una riscoperta di quelle radici e tradizioni che hanno nutrito la ricca storia della Nazione e che costituiscono un inestimabile tesoro da offrire al mondo intero». Sono grato di questo bel riconoscimento del Papa al nostro Paese.
Lavoro, famiglia, giovani
Nel contempo, sono grato anche al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che nel suo discorso di fine anno, ha sottolineato con forza che il lavoro resta la priorità per l’Italia. Ormai da molto tempo anche come Chiesa italiana stiamo insistendo su questo tema, considerandolo una delle «priorità irrinunciabili». Da Cagliari, dove lo scorso ottobre abbiamo vissuto la 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani, siamo ripartiti con alcune proposte concrete sul lavoro. Quest’esperienza, ampiamente positiva, non va sprecata, ma rafforzata e fatta crescere insieme con tutti coloro che vorranno impegnarsi in questo campo. Gli obiettivi sono grandi e impellenti: creare lavoro, combattere la precarietà e rendere compatibile il tempo di lavoro con il tempo degli affetti e del riposo. Come ha detto Francesco, «il lavoro è sacro», fornisce «dignità» ad ogni «persona umana» e alla «famiglia». Vorrei riassumere questi obiettivi con un’affermazione ambiziosa: lavorare meglio, lavorare tutti.
Il lavoro è dunque una priorità ma è soprattutto una vera emergenza sociale. Un’emergenza resa ancora più impellente dai dati relativi alla disoccupazione giovanile: sono troppi i nostri ragazzi che vengono ingiustamente mortificati nel loro talento e duramente provati nelle loro aspettative di vita, costringendoli spesso ad un’amara e dolorosa emigrazione. È un grido di dolore e di aiuto quello che viene dai nostri giovani. Che va raccolto e va fatto nostro. Come faremo nel prossimo Sinodo dei Vescovi.
Un altro dato che inquieta è quello relativo alla condizione di povertà assoluta delle famiglie – si parla di oltre un milione e mezzo – con un aumento di ben il 97% rispetto a dieci anni fa. Se si fermano le famiglie, si ferma il motore sociale del Paese. Smette di battere il cuore della società. È necessario ripeterlo con forza: è urgente e doveroso aiutare, curare e sostenere, in ogni modo possibile, le famiglie italiane. Perché nelle famiglie risiede la struttura portante della nostra società e si pongono le basi del futuro. Da questo punto di vista, fa ben sperare l’ampia condivisione che il “Patto per la natalità”, presentato la scorsa settimana dal Forum delle Associazioni Familiari, ha raccolto tra tutti gli esponenti di partito: chiediamo che alle dichiarazioni compiaciute segua la volontà concreta di porre le politiche familiari come priorità all’interno dei vari programmi in vista delle elezioni.
Un appuntamento per l’Italia
Il riferimento appena fatto mi permette di toccare l’ultimo spunto di riflessione: le prossime elezioni politiche. Come Vescovi ci uniamo innanzitutto all’appello del Capo dello Stato a superare ogni motivo di sfiducia e di disaffezione per partecipare alle urne con senso di responsabilità nei confronti della comunità nazionale.
Richiamato il valore morale e democratico del voto, voglio essere altrettanto chiaro sul fatto che la Chiesa non è un partito e non stringe accordi con alcun soggetto politico. Il «risveglio della Chiesa nelle anime» evocato da Romano Guardini, lo «sviluppo integrale dell’uomo» promosso da Paolo VI e il dialogo con tutti costituiscono il nostro orizzonte di riferimento. Con un’ulteriore specificazione riguardo al dialogo. Come ha detto Papa Francesco al Convegno ecclesiale di Firenze «dialogare non è negoziare». Negoziare, infatti, consiste soltanto nel «cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune». Ma non è questo, ovviamente, ciò che intendiamo. Dialogare significa, invece, «cercare il bene comune per tutti».
Il bene comune per tutti: in questa prospettiva – la sola che ci sta a cuore – possiamo tracciare un orizzonte di idee e proposte che vogliono essere un contributo fattivo e concreto alla discussione pubblica.
Con questo spirito, voglio rivolgere a tutti i candidati un invito a riflettere sulla natura della vocazione politica. Perché di questo si tratta: una vocazione, una missione e non un trampolino di lancio verso il potere. Come ha scritto Francesco, «la politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose di carità, perché cerca il bene comune» .
In secondo luogo, un invito alla sobrietà. Una sobrietà nelle parole e nei comportamenti. La campagna elettorale sta rendendo serrato il dibattito, ma non si può comunque scordare quanto rimanga immorale lanciare promesse che già si sa di non riuscire a mantenere. Altrettanto immorale è speculare sulle paure della gente: al riguardo, bisogna essere coscienti che quando si soffia sul fuoco le scintille possono volare lontano e infiammare la casa comune, la casa di tutti.
In terzo luogo, la ricerca sincera del bene comune. Non a parole ma con i fatti. Per il futuro del Paese e dell’intera sua popolazione, da Nord a Sud, occorre mettere da parte le vecchie pastoie ideologiche del Novecento e abitare questo tempo con occhi sapienti e nuovi propositi di ricostruzione del tessuto sociale ed economico dell’Italia. In questa grande opera, è auspicabile l’impegno di tutte le persone di buona volontà, chiamate a superare le pur giustificate differenze ideologiche per raggiungere una reale collaborazione nel servizio del bene comune. E, se posso indicare un ambito privilegiato su cui impegnarsi, raccomando la scuola, dove si gioca la partita decisiva del percorso formativo dei nostri ragazzi. Di questa scuola sono parte integrante e qualificata le scuole pubbliche paritarie, ancora in attesa dell’adempimento di promesse relative a sostegni doverosi, da cui dipende la loro stessa sopravvivenza.
Vorrei, infine, rivolgere tre indicazioni ai cattolici in politica.
La prima: vivete la politica con gratuità e spirito di servizio. Testimoniate questa gratuità con gesti concreti e con una vita politica degna della vostra missione, ricordando che i cristiani di ogni tempo «vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo» .
La seconda: guardate al passato per costruire il futuro. Guardate ad una stagione alta e nobile del cattolicesimo politico italiano. Prendete come esempi uomini e donne di diverso schieramento politico che, nella storia della Repubblica, hanno saputo indicare percorsi concreti e interventi mirati per affrontare le questioni e i problemi della nostra gente.
La terza: abbiate cura, senza intermittenza, dei poveri e della difesa della vita. Sono due temi speculari, due facce della stessa medaglia, due campi complementari e non scindibili. Non è in alcun modo giustificabile chiudere gli occhi su un aspetto e considerare una parte come il tutto. Un bambino nel grembo materno e un clochard, un migrante e una schiava della prostituzione hanno la stessa necessità di essere difesi nella loro incalpestabile dignità personale. E di essere liberati dalla schiavitù del commercio del corpo umano, dall’affermazione di una tecnoscienza pervasiva e dalla diffusione di una mentalità nichilista e consumista. Lo dico anche a riguardo delle recenti «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento»: ci preoccupa la salvaguardia della speciale relazione tra paziente e medico, la giusta proporzionalità delle cure – che non deve mai dar luogo alla cultura dello scarto –, la possibilità di salvaguardare l’obiezione di coscienza del singolo medico e di evitare il rischio di «aziendalismo» per gli ospedali cattolici.
In definitiva, vorrei ricordare a tutti: la vita non si uccide, non si compra, non si sfrutta e non si odia!
Un ultimo punto – che accenno soltanto, ripromettendomi di affrontarlo nel corso dei nostri lavori – è una proposta che mi sta particolarmente a cuore e che, in un orizzonte davvero europeo, riguarda il rilancio dell’impegno per la pace nel Mediterraneo: ne riparleremo in queste giornate.
Cari confratelli, lo Spirito Santo ci sostenga nell’affrontare con umiltà la nostra chiamata ad essere docili servitori della Chiesa e dell’intera famiglia umana; la Vergine Maria ci assista e ci protegga sempre, donandoci l’amore per Suo figlio e un autentico spirito missionario!