Contro il malaffare e la corruzione, papa Francesco ha indicato ai suoi collaboratori le linee guida per la trasparenza nell’amministrazione della Santa Sede: “Oggi è il Vaticano a cercare la puzza di marcio e a denunciare i corrotti”. Il Pontefice, riferisce La Stampa, non ha esitato ad affrontare i recenti scandali finanziarie e vicende finite sotto la lente della magistratura d’Oltretevere come il controverso acquisto immobiliare a Londra.
Porte e finestre spalancate
“Al di là del Tevere questi sono giorni in cui si accendono luci, puntando anche riflettori potenti, nei corridoi più oscuri dei Sacri Palazzi, dove tutto fa pensare che si siano consumati e continuino a proliferare – osserva il quotidiano diretto da Maurizio Molinari -. O comunque azioni non coerenti con l’eticità e la morale cattolica, intraprese per soddisfare interessi personali”. E si stanno spalancando porte e finestre delle Sacre Stanze per cambiare aria, far uscire quella viziata ed entrare quella fresca dell’onestà. “Per la Chiesa è il tempo della trasparenza”. Così papa Francesco ha sentenziato ai suoi collaboratori. Con serenità e determinazione. “Il Pontefice si riferiva alle indagini sugli ultimi presunti scandali finanziari scoppiati in ottobre, legati ai fondi propri della Segreteria di Stato, al loro uso opaco o spericolato- puntualizza La Stampa-. Se illegale, lo dirà la magistratura vaticana. Fino a prova contraria, deve prevalere il garantismo e la presunzione di innocenza, non manca di ribadire il Papa. Dopo il blitz con perquisizioni e il sequestro di pc, telefonini e archivi nei locali della prima sezione della Segreteria di Stato e dell’Autorità di Informazione finanziaria (Aif, l’organismo anti-riciclaggio), Bergoglio non vuole addentrarsi nei meandri delle ipotesi di colpevolezza dei protagonisti sotto inchiesta e di altri a cui si allude”. Attende “l’esito del lavoro, con piena fiducia nel promotore di Giustizia Gian Piero Milano e nella sua squadra”. Non ha idea “di come finirà questa storia”.
Spending review da rafforzare
Il Pontefice non gli interessa fare previsioni. Né sta pensando “a interventi particolari nell’immediato. Aspetto che venga fatta chiarezza sulle varie responsabilità e gli eventuali reati”. Solo a quel punto, precisa La Stampa, studierà un modo di procedere rinnovato per amministrare il patrimonio della Santa Sede, che possa tenere conto anche del bilancio economico strutturale, rafforzando la spending review per risanare i conti (e allontanare lo spettro del crac che viene evocato). Dunque, “calma e sangue freddo, è lo stato d’animo di Francesco, che in questi giorni tesi e delicati per le istituzioni della Santa Sede, resta concentrato sul Sinodo per l’Amazzonia fortemente voluto”.
Lo stile del pontificato
Contro la “globalizzazione dell’indifferenza”, Jorge Mario Bergoglio mette al centro del Magistero l’attenzione alle periferie geografiche ed esistenziali. Una rivoluzione rispetto alla visione romanocentrica. Nel segno del Concilio ecumenico Vaticano II. Nell’affrontare i grandi temi sociali, Francesco attinge sì a tutta la tradizione spirituale dei “santi della carità”, ma anche ad alcuni testi del Concilio, che denotano speciale attenzione per la giustizia verso i poveri e l’impegno a favore degli ultimi. Il testo più rilevante è Lumen Gentium 8, diventato teologicamente importante per richiamare la povertà della Chiesa. Il decreto conciliare Presbyterorum Ordinis contempla l’attenzione della povertà rivolta ai presbiteri in particolare nel numero 17: la non appartenenza al mondo; abbracciare la povertà volontaria; la gratuità; l’uso retto dei beni temporali; sostegno alle opere di apostolato a favore dei poveri; le opere della carità; evangelizzazione anche verso i poveri; attrazione dei più deboli evitando di allontanarli.
La lezione di Ratzinger
Il suo motto episcopale “Cooperatores veritatis” (collaboratori della verità) era tratto dalla Terza Lettera di Giovanni. Joseph Ratzinger aveva scelto al tempo della sua nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga e Ratzinger spiegò così la decisione relativa a quelle due parole: “Pareva che potessero ben rappresentare la continuità tra il mio compito precedente e il nuovo incarico: pur con tutte le differenze si trattava sempre della stessa cosa, seguire la verità, porsi al suo servizio”. E in effetti per Joseph Ratzinger il vescovo era un “pater familias” e la famiglia è una chiesa domestica. I valori familiari furono la stella polare della sua intera esistenza e la loro difesa fu prioritaria nella sua missione da vescovo prima della diocesi di Monaco-Frisinga e poi di quella di Roma. Era il 28 maggio del 1977 quando Joseph Ratzinger ricevette l’ordinazione episcopale come nuovo arcivescovo di Monaco-Frisinga per decisione di Paolo VI. Nelle dichiarazioni rese ai mass media in quel determinante frangente del suo “cursus honorum” si comprende molto del Ratzinger che divenne pastore senza mai smettere di essere teologo. E che poi, parimenti, diventerà Papa, restando teologo. “Una caratteristica della fede cristiana è quella di avere un contenuto che si rivolge anche all'intelligenza e alla ragione dell'uomo”, argomentò Ratzinger. “Questa stessa struttura, che consiste nel proporre dei contenuti che hanno una profonda radice nel mistero ma che nello stesso tempo sono intelligibili e quindi proponibili alla comprensione della ragione umana, ha fatto sì che nella Chiesa la riflessione teologica abbia sempre avuto una funzione importante: la teologia è un “pensare con” la Parola di Dio. E quanto più il pensiero umano si sviluppa, tanto più importante è il fatto che proprio le domande ultime che la fede pone all'uomo non rimangano intellettualmente sottosviluppate, ma crescano con esso, accompagnino il suo cammino”. In questo stava, secondo il futuro Benedetto XVI, la funzione e la grandezza della teologia: accompagnare la ragione umana, permettendo all'Avvenimento cristiano di rendersi presenza dentro la vita dell'uomo. Ratzinger concepì l’ordinazione episcopale come un approfondimento delle sue precedenti esperienze.
La necessità del buon senso
Il suo programma di episcopato includeva il dialogo con i sacerdoti e con i laici dei consigli parrocchiali, nella speranza-convinzione che il suo bagaglio teologico gli permettesse di trovare valide indicazioni pastorali. Anche perché “i problemi specifici della Chiesa sconfinano spesso nel campo della teologia”. E “la crisi della Chiesa deriva anche dai problemi suscitati dalla riflessione teologica”. Per questo il futuro Benedetto XVI ritenne giusto richiedere al vescovo una specifica conoscenza teologica. La sua preoccupazione nel ricevere l’ordinazione episcopale era che nella società secolarizzata non fossero più riconoscibili le premesse dei valori fondamentali che ordinavano la vita dell'uomo. A quanti gli rimproveravano un presunto “voltafaccia” nella stagione del post-Concilio, Ratzinger replicava difendendo la centralità del Vaticano II nella Chiesa del Novecento, senza nasconderne le fragilità. “La grandezza del Concilio è stata quella di lasciarsi interrogare dai problemi vitali dell'uomo e di aver cercato di darvi una risposta a partire dalla fede. I suoi limiti consistono nel fatto che, nell'accogliere questi problemi, il Concilio non ha potuto dare una risposta specifica a ognuno di essi, ma ha semplicemente indicato delle linee fondamentali: inevitabilmente sono più i compiti e i problemi nuovi che ha aperto che non le risposte precise che ha potuto dare”.
Amministrare come un padre di famiglia
Nel delicato e per lui inedito ruolo di capo di una diocesi, Ratzinger si impegnò subito a mantenere una piena fedeltà alla sostanza della fede, così come essa era stata annunciata integralmente dal Concilio, ma anche a ricavare da questa stessa fedeltà le risposte ai nuovi compiti che il Vaticano II aveva aperto. Alla guida dell’arcidiocesi di Monaco si strutturò il Ratzinger uomo di governo, persuaso che il rinnovamento sollecitato dal Concilio non richiedesse al vescovo di erigere nuove strutture ecclesiali. Per lui solo l’approfondimento spirituale del nucleo fondamentale della fede cristiana poteva consentire di trovare soluzioni autentiche alle domande concrete che l'agire e anche il soffrire della Chiesa poneva nelle diverse situazioni locali, nella consapevolezza che non si potevano dare risposte universalmente valide alla crisi della Chiesa e che la situazione nelle varie parti del mondo era molto diversa. L’appena ordinato vescovo Joseph Ratzinger disse chiaro e tondo che “l'urgenza più grande è che la Chiesa ritrovi la semplicità, si converta a tale semplicità e cammini verso i semplici”. Si trattava di recuperare e di vivere la semplicità del “sì” di Maria a Dio, il “sì” della “povera di Jahvè” che fu l'inizio della Chiesa. Con profonda spiritualità, il mite teologo invocò, appena ricevuta la berretta cardinalizia, una conversione attraverso la formazione di “comunità vive”, nelle quali gli uomini potessero fare l'esperienza della “communio sanctorum”, sperimentando così il fatto che la comunione era qualcosa di reale, di concreto, di vitale. All’inizio del suo quinquennio a capo dell’arcidiocesi bavarese, Ratzinger esortò la Chiesa tedesca a prendere di petto la questione della catechesi e, in particolare, dell’insegnamento della religione nelle scuole del quale si era da poco occupato il Sinodo dei cattolici tedeschi.
Un modello per la Chiesa universale
La catechesi era la premessa alla continuità dell'esperienza cristiana, ciò che permetteva non soltanto ai bambini ma agli uomini di arrivare alla fede ed eventualmente alla scelta del sacerdozio. “Dopo il Concilio nelle scuole non si sono più usati i catechismi che fino ad allora erano stati a disposizione e si sono approntati in tutta fretta nuovi testi, risultati gravemente superficiali”, denunciò Ratzinger. “La conseguenza è che i catechisti per la maggior parte, o si sono abbandonati all'improvvisazione, o hanno fatto ricorso a una letteratura realmente insufficiente, il cui fondamento nella fede della Chiesa è molto problematico”. Per di più, secondo il nuovo arcivescovo di Monaco, non esisteva un piano adeguato di catechesi ma i singoli catechisti si riducevano a trattare solo ciò che interessava gli studenti, con il risultato che si finiva per parlare sempre degli argomenti che riguardavano la morale, e, in particolare, la morale sessuale. Il neo-porporato approntò, quindi, un piano catechetico per tutti i diversi gradi di scuola, sufficientemente elastico da adattarsi alle diverse situazioni, ma che nello stesso tempo fosse in grado di rappresentare un modello di catechesi sufficientemente fondato, così da poter offrire un valido appoggio al catechista, chiamato a dare agli allievi i contenuti principali della fede cristiana. Parallelamente, edificò il suo governo episcopale sul dialogo con la società perché, sosteneva, che il Vangelo chiamasse la persona, cioè l'uomo, in tutte le sue dimensioni, quindi anche nella in quella sociale e ciò aveva precise incidenze anche sull'agire politico e sociale dell'uomo. Ma come poi accadde anche durante il suo pontificato, fu il rapporto tra fede e ragione la linea rossa capace di unire pensiero e azione nell’apostolato di Joseph Ratzinger.
“Non siamo un’impresa finanziaria”
“La Chiesa non è un partito o un'impresa finanziaria”, dichiarò a pochi mesi dall’ingresso nell’arcidiocesi bavarese. “La Chiesa annuncia il Vangelo e le sue responsabilità in campo sociale e politico comportano che essa deve affinare la coscienza sociale, che deve adeguare la sua dottrina sociale continuamente, in un costante e coraggioso ascolto del Vangelo. Essa deve vigilare sul formarsi di questa coscienza nei cristiani affinché agiscano effettivamente come tali nei loro posti di lavoro e si assumano fino in fondo in quei luoghi la responsabilità dell'Annuncio”. Nel fulmineo passaggio da accademico ad arcivescovo di una diocesi di prestigio e subito dopo cardinale, Joseph Ratzinger portò un bagaglio personale di esperienze e attitudini intellettuali, in primo luogo la curiosità dell’altro e la capacità di ascoltare. Affermando pacificamente la propria identità e guardando con curiosità al diverso da sé, il professor Ratzinger, ricevuto il mandato di vescovo, seppe aprirsi al dialogo con tutte le componenti della società e della cultura per merito anche della sua predilezione per la musica, la letteratura e le arti.
Non si vive di solo cervello
Per scendere dalla torre d’avorio dell’insegnamento universitario e intercettare umori e attenzioni del popolo di Dio, gli fu utile anche la passione per lo sport. Quando il Bayern Monaco vinse il campionato tedesco nel 1979-80, da arcivescovo di Monaco scrisse una lettera pastorale sul tifo calcistico paragonandolo all’amore per Dio “perché è gratuito e disinteressato”. Tre decenni dopo il presidente del club bavarese Uli Hoeness inviò a Benedetto XVI una tessera di socio onorario. Del resto, già Giovanni Paolo II aveva accettato le tessere di due squadre di calcio: lo Schalke 04 di Gelsenkirchen e il Borussia Dortmund. “L’amore per la bellezza e per la sua armonia svelarono una capacità, sua personale, di non vivere solo di cervello, ma anche di passioni e di emozioni” afferma il vaticanista e scrittore Filippo Rizzi. Esemplare a riguardo il grande discorso nel settembre 2011 al Parlamento tedesco, pieno di senso “laico” del bene comune e della responsabilità “sociale” di ogni essere umano.
Il paradosso accademico
Fu invece paradossale e triste, l’episodio avvenuto nel gennaio 2008 alla Sapienza di Roma, dove una manifestazione di poche persone, ideologicamente e pregiudizialmente ostili, gli ha impedito di tenere un discorso che avrebbe certamente aperto un ponte di dialogo. Per Ratzinger, al centro della paterna azione di un vescovo, non poteva non esserci la consapevolezza della responsabilità, per la Chiesa tutta, di dover testimoniare la verità e denunciare le ingiustizie e le ferite dell’umano, sia quelle sociali, figlie di uno sviluppo economico iniquo, sia quelle valoriali e antropologiche, figlie di una ragione narcisista e troppo piena di sé per alzare lo sguardo di fronte al Mistero. Al ruolo di vescovo attribuiva, quindi, come prima responsabilità, quella dell’edificazione della Chiesa come famiglia di Dio e luogo di aiuto vicendevole e di disponibilità in linea con la missione di custodire la comunione ecclesiale e promuoverla e difenderla vigilando costantemente sul gregge. Come fa un bravo padre di famiglia, chi guida una diocesi doveva essere in grado di dimostrare discernimento, coraggio apostolico e paziente bontà nel cercare di convincere e di coinvolgere, affinché le sue indicazioni fossero accolte di buon animo ed eseguite con convinzione e prontezza. Fare il vescovo non era affatto facile e svolgere il ministero episcopale significava nutrire il gregge del Signore: ministero d'amore vigile, che esigeva totale dedizione fino all’esaurimento delle forze e, se necessario, al sacrificio della vita. Il senso del quarantennale ministero episcopale di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI si fondò, quindi, su quattro pilastri: cura pastorale, vicinanza al gregge, incontro con Cristo, amore della verità.
Il buon pastore
Dopo due decenni di insegnamento al corso di laurea in Servizio sociale all’Università Cattolica di Milano, il sociologo Francesco Belletti ha prima presieduto, negli anni del pontificato di Benedetto XVI, il Forum del Forum delle associazioni familiari e ora dirige il Cisf, il Centro internazionale di studi sulla famiglia. Nessuno meglio di lui può scavare nel Ratzinger “pater familias”. “Trent’anni di esperienza in prima linea, a favore della famiglia, lo hanno portato a “vivere, interagire e lavorare in ambito ecclesiale a livello nazionale e internazionale”. Secondo Ratzinger il principale compito del pastore era quello di proteggere e rassicurare il gregge, perciò la sua eredità più preziosa lasciata alla Chiesa e a tutta la società è stata “la tranquilla e argomentata certezza che la fede e l’esperienza religiosa fossero perfettamente ragionevoli” e che tale ragionevolezza fosse comprensibile da ogni persona di buona volontà.L’alleanza tra fede e ragione (e quindi tra fede e scienza, tra fede e contemporaneità, tra credenti e non credenti) ha caratterizzato il pacato magistero di un grande intellettuale a livello mondiale, a giudizio del professor Belletti, che ricorda Ratzinger come una persona sicura che il “retto intelletto” potesse consentire a ogni uomo di confrontarsi sulle grandi questioni dell’umano, senza escludere nessuno: bastava essere sinceri e rigorosi davanti a tali domande. E ciò lo si comprese fin dagli albori del suo episcopato, quando nominando alla guida dell’arcidiocesi bavarese il cinquantenne ordinario di dogmatica dell’università di Ratisbona, Paolo VI aveva eletto come successore del cardinale Julius August Döpfner un eminente teologo del Concilio Vaticano II.
La testimonianza di Paolo VI
Memorabili e di profonda lungimiranza le parole rivolte da papa Giovanni Battista Montini al suo futuro successore: “Nello spirito volgiamo lo sguardo verso di te, amato figlio: sei dotato di eccellenti doti spirituali, soprattutto sei un importante maestro della teologia che, come docente di teologia, hai trasmesso con zelo e fecondità ai tuoi ascoltatori, pertanto, conformemente ai trattati esistenti, in virtù del nostro mandato apostolico, ti nominiamo arcivescovo della sede metropolitana di Monaco e Frisinga”. Erano 80 anni che l’incarico non veniva affidato a un sacerdote dell’arcidiocesi bavarese. I principali consacranti dell’ordinazione episcopale furono il vescovo Josef Stangl di Würzburg, il vescovo Rudolf Graber di Ratisbona e il presule ausiliare di Monaco Ernst Tewes. E significativo fu il primo saluto ai fedeli del neo-arcivescovo Joseph Ratzinger nel Duomo di Nostra Signora: “La nostra Monaco, la nostra terra bavarese è tanto bella perché la fede cristiana ne ha risvegliato le forze migliori; non ha tolto nulla al suo vigore, bensì l’ha resa generosa e libera. Una Baviera in cui non si credesse più, avrebbe perso la propria anima e non c’è tutela dei monumenti che potrebbe trarre in inganno a proposito”. Joseph Ratzinger, osserva Belletti, ha avuto la responsabilità di attraversare le più drammatiche vicende della storia europea e poi mondiale, dal nazismo in poi, non solo come individuo, ma come “servo della Chiesa”, come una persona che aveva scelto di non vivere per sé, ma per la propria appartenenza ad un Corpo più grande.