La ricetta migliore per la crescita, non solo spirituale ma anche sociale ed economica, sta nell'investire nella famiglia. E' quello che sostiene il professor Robert P. George, uno dei più conosciuti e studiosi nell'ambito del diritto naturale. Il “New York Times” lo ha definito il più grande pensatore cristiano-conservatore del mondo. Docente di Filosofia del Diritto all'Università di Princeton e fondatore del “James Madison program” in ideali e istituzioni americane. Robert P. George è sicuramente uno degli intellettuali più influenti a livello internazionale. L'enorme autorevolezza di cui gode il giurista americano gli ha consentito anche di rivestire il ruolo di presidente della Commissione sui diritti civili degli Stati Uniti dal 1993 al 1998 ed essere nominato Judicial Fellow alla Corte Suprema. Alcune delle sue pubblicazioni più famose hanno messo in evidenza, da un punto di vista giurisprudenziale, i limiti del “liberalismo secolare”, presentando i suoi dogmi ('matrimonio' tra soggetti dello stesso sesso, sperimentazioni su embrioni umani, aborto ed eutanasia) come “nemici della coscienza”. L'illustre accademico si trova in questi giorni a Roma per partecipare come relatore al Simposio internazionale della Fondazione Vaticana Joseph Ratzinger – Benedetto XVI che si sta tenendo alla Lumsa. A margine del suo intervento pubblico in cui ha affrontato il nodo del rapporto tra diritto naturale e diritti umani, In Terris lo ha intervistato in esclusiva.
Professor George, per le unioni tra uomo e donna viene utilizzata sempre più spesso la definizione di “famiglia tradizionale”. E' giusto o sarebbe più corretto parlare di “famiglia naturale”?
“E' semplicemente una questione terminologica. Il principio fondamentale sta nell'essere coppia: Il matrimonio è una relazione coniugale e non soltanto una partnership domestica o un'unione romantica basata sull'amore. Solo questa dimensione coniugale all'interno del matrimonio, infatti, può spiegare tutti quegli aspetti del matrimonio che non sono controversi. Quindi, che il matrimonio è un'unione di due persone e non di tre o quattro persone; che è chiuso e non aperto dal punto di vista sessuale; che è un contratto permanente e non uno come quelli che dopo pochi anni scade e deve essere rinnovato. Questo spiega perchè lo Stato non dovrebbe avere nessun interesse a regolamentarlo in qualche modo. Lo Stato, per esempio, non ha alcun interesse a regolamentare delle unioni come quelle che riguardano l'amicizia. Il matrimonio ha una dimensione procreativa e questo spiega perchè lo Stato non dovrebbe avere alcun tipo di preoccupazione nei confronti di questa relazione di tipo coniugale. E' solo una questione di retorica scegliere di utilizzare matrimonio naturale o tradizionale, il punto principale è quello di capire la realtà che è sottostante”.
Perchè sostiene che la ricostruzione di una cultura matrimoniale è il rimedio migliore contro la povertà?
“Se guardiamo ai dati, possiamo osservare come nelle aree dei Paesi sviluppati dove il matrimonio non è più un'istituzione – penso ad esempio alla realtà di molte città americane – continuino a crescere consistenti sacche di povertà. Questo si deve proprio alla distruzione della famiglia, alla prevalenza di gravidanze fuori dal matrimonio e all'assenza del padre. E' chiaro che i rapporti di correlazione non sono necessariamente di causa ed effetto. Ma se qualcuno vede questa correlazione non solo in termini di luoghi dove accade ma in termini temporali, sembra impossibile negare che ci sia una connessione tra i due aspetti che ricordavi. Dove si riesce a ricostruire in qualche modo la cultura del matrimonio, invece, troviamo che soprattutto i giovani riescono ad avere una maggiore responsabilità nei confronti di se stessi, riescono a trovare il lavoro e poi a mantenerlo. Le imprese, che cercano buoni lavoratori, sono attirate nei luoghi dove ci sono molte persone capaci, che hanno qualità e possono tenersi posti di lavoro qualificati per cui sono necessarie competenze”.
Perchè l'Europa sembra essere più esposta ai venti del secolarismo rispetto agli Stati Uniti?
“Una bella domanda ma a cui è complesso rispondere. Il fattore determinante potrebbe essere costituito dalle guerre europee: dai conflitti di religione alla devastazione della Prima e della Seconda guerra mondiale, passando per l'ascesa dei regimi totalitari. Questo ha fatto sì che in Europa la religione viene associata da molti al settarismo e alle controverse violente. La Grande Guerra ha scosso molte tradizioni, molti modi di vivere all'interno della società e i grandi sistemi ideologici hanno proposto fondamentalmente delle alternative alla religione come fonte di significato e di senso di appartenenza; ad esempio il fascismo, il nazionalsocialismo, il comunismo e anche il secolarismo liberale. Gli Stati Uniti non hanno alcuna storia in questo senso, non hanno avuto guerre di religione. Hanno avuto guerre civili molto sanguinose ma sempre tra cristiani e principalmente tra protestanti. La Prima e la Seconda guerra mondiale hanno scardinato tantissime relazioni sociali così come avevano fatto in precedenza la rivoluzione francese e rivoluzione bolscevica. Queste due rivoluzioni erano state parzialmente attivate da una lotta contro la religione. Noi in America non abbiamo avuto niente di questo tipo nella nostra storia. Sin dall'inizio, abbiamo evitato di avere una Chiesa stabilita dal punto di vista federale anche se dal 1830 il sistema costituzionale americano – che non aveva una religione stabilita – ha creato una situazione in cui la religione è fiorita più che sfiorita”.
La distinzione che lei fa tra autoritaristi e totalitaristi fotografa perfettamente una certa deriva visibile a livello mondiale nell'epoca attuale. Ce la può spiegare?
“Gli autoritaristi vietano alla gente di dire quello che sanno essere vero. I totalitaristi, invece, forzano le persone a dire quello che loro sanno essere falso. La prima categoria è pessima ma la seconda è ancora peggio. Mandar via gli autoritaristi ci permette di combattere anche i totalitaristi”.