L’ultima roccaforte dell’Isis è caduta. Sabato scorso i media di tutto il mondo annunciavano con grande enfasi che la bandiera nera dello Stato islamico ha smesso di sventolare anche su Baghuz, dove gli jihadisti si erano asserragliati. Per due mesi questo villaggio della Siria orientale era stato teatro di un’offensiva delle milizie curde, nel corso della quale è rimasto ucciso il volontario italiano Lorenzo Orsetti. Ma ora che i territori in possesso dello Stato islamico sono completamente spariti dalla cartina geografica, il conflitto può dirsi davvero finito? E soprattutto, possono dirsi finite le sofferenze del popolo siriano? E ancora: cosa ne sarà dei miliziani jihadisti, molti dei quali provenienti dall’estero? In Terris ha provato a rispondere a queste domande intervistando padre Andrzej Halemba, responsabile internazionale di Aiuto alla Chiesa che Soffre per il Medio Oriente.
Ora che l’Isis è stato sconfitto, qual è la situazione in Siria?
“La situazione continua ad essere complicata, se non drammatica e in peggioramento. Dopo otto anni di guerra, si è sfiniti. Un abitante mi ha detto: ‘Mi sento come un insetto catturato in un barattolo, mi stanco a muovermi senza risultato. Non so per quanto tempo continuerà, ma temo non molto a lungo, sai cosa succede agli insetti quando si trovano in questa situazione, soprattutto se non ci sono buchi d’aria…’”.
Cosa sono i “buchi d’aria” per la popolazione siriana?
“Un po’ di speranza di pace e stabilità, che attualmente non si vedono all’orizzonte. Tutte le parti in conflitto gestiscono le loro agende attraverso la guerra per procura e la guerra ibrida. La Siria è un Paese dove tutti i problemi tipici della regione sono come visibili con la lente d’ingrandimento. Il conflitto per ora è congelato, ma restano irrisolte le principali dispute territoriali e politiche”.
Ma intanto l’Isis è sconfitto…
“Sì, ma il fondamentalismo è solo dormiente, può risvegliarsi in qualsiasi momento, specie se la situazione non dovesse migliorare. Certe degenerazioni possono esplodere quando la gente è costretta a fare i conti con problematiche che privano anche del senso di identità nazionale: spostamenti interni forzati, case private distrutte, mancanza di infrastrutture, di elettricità, di gas e acqua, disoccupazione, povertà e limitazione di accesso ai servizi come assistenza sanitaria e istruzione”.
Cosa dovrebbe fare la comunità internazionale?
“Non deve voltare le spalle ai siriani. Stephane Dujarric, portavoce delle Nazioni Unite, ha detto alla Bbc che le potenze internazionali hanno messo i propri interessi davanti alla necessità di porre fine al conflitto. A mio avviso, sarebbe fondamentale consentire un dialogo per la pace a livello politico. Se è possibile parlare con un regime così oppressivo come quello della Corea del Nord, dovrebbe esserlo anche con la Siria. È necessario arginare l’escalation e dare avvio ai negoziati politici. Ma non basta fermare le azioni militari. La pace richiede molto di più: gli aiuti umanitari e la ricostruzione sono attualmente questioni chiave, perché le sanzioni stanno rovinando la vita ordinaria dei siriani. Le sanzioni sono uno strumento politico per fare pressione, ma la comunità internazionale dovrebbe assicurarsi che non stia distruggendo i mezzi di sostentamento di migliaia, se non milioni di persone: è quello che sta accadendo oggi Siria. Ad esempio, una famiglia media siriana non ha la possibilità di comprare latte in polvere per i propri figli. L'importazione di questo prodotto è sanzionata. Il 15% del budget di emergenza di Aiuto alla Chiesa che Soffre per la Siria è stato speso per il latte”.
Quanti combattenti stranieri sono ancora presenti tra la Siria e l'Iraq?
“Troppi! Uno studio del luglio 2018 condotto dal Centro internazionale per lo studio della radicalizzazione (Icsr), sulla base di dati ufficiali, accademici e di altro genere, ha concluso che sono 41.490 persone, di cui 4.761 donne e 4.640 bambini. Sono provenienti da circa 80 Paesi, 5.904 dall’Europa occidentale, principalmente da Francia, Germania, Regno Unito e Belgio. Ed è curioso constatare che molti combattenti provengono dalle Maldive, che ha il contingente più grande in proporzione alla grandezza del Paese. Un dato che dovrebbe far riflettere chi sta pensando di scegliere le Maldive come destinazione di un viaggio. Ma quella in Siria, come ho detto prima, è anche una guerra per procura, per cui diverse potenze stanno prendendo parte in un modo o nell’altro a questo sporco gioco”.
Quanti cristiani sono tornati in Siria?
“Pochissimi, quelli che tornano hanno problemi con l’alloggio e con l’assenza di infrastrutture. La Siria è devastata dalla guerra: uno studio stima che un quinto di tutti gli edifici residenziali in 15 città del Paese è stato danneggiato. La carenza di gas e servizi di base ha costretto molte famiglie a passare l’inverno al freddo. Poi mancano lavoro e cibo, nonché l’accesso ai servizi sanitari e all’istruzione. Sono aspetti che scoraggiano i cristiani a tornare”.
Come Aiuto alla Chiesa che Soffre che sostegno state dando?
“Conosciamo l’importanza di facilitare la rimozione degli ostacoli che impediscono alle persone il rimpatrio; abbiamo esperienza in questo senso in Iraq, dove anche grazie ai nostri sforzi, il 45,98% delle famiglie è tornato (9.119 su 19.832) e 6.328 case sono state ristrutturate o ricostruite (su 14.035). Cerchiamo di fare altrettanto in Siria: abbiamo appena terminato la ricostruzione di 55 case private a Qalʿat al-Ḥiṣn, vicino la fortezza di Krak de Chevaliers, aggiunte a centinaia già sostenute dai nostri benefattori. Inoltre abbiamo avviato la ricostruzione di edifici sacri e strutture pubbliche; i cristiani non hanno solo bisogno di case, ma anche di scuole per i loro figli, chiese per pregare e celebrare matrimoni e funerali. Dall'inizio del conflitto, nel marzo 2011 e fino alla fine del 2018, abbiamo stanziato 29,5 milioni di euro per 738 progetti: si stima che ogni cristiano siriano abbia ricevuto sostegno da Acs circa 12 volte”.
La pace in Siria è possibile?
“Il fondatore di Acs, padre Werenfried van Straaten, il cui nome significa ‘guerriero per la pace’, invitava le persone ad avere il coraggio e la compassione per aprire il cuore alla pace. Se la situazione in Medio Oriente si deteriora, potrebbe avvenire un’altra ondata di migrazione di massa verso l’Europa. Ma L’Ue è pronta ad affrontare una nuova crisi migratoria? La domanda non è ‘se’, ma ‘come’. Come si può raggiungere la pace, quando non c'è dialogo? Il dialogo è una via di pace. Padre Werenfried diceva ancora: “Dio è molto meglio di quanto pensiamo e anche le persone sono migliori di quanto pensiamo”. Per raggiungere la pace e la concordia non c'è niente di meglio del dialogo. Come dicevano i classici: ‘Pax optima rerum’. Ma amare la pace non è sufficiente, dobbiamo diventare strumenti di pace”.
Padre Halemba con Nicolas Sawaf of Lattakia, arcivescovo greco-melchita di Lattakia, durante la cerimonia per il ritorno a casa delle famiglie cristiane del villaggio di Qalʿat al-Ḥiṣn