Si è chiusa ieri a Erbil, nel Kurdistan iracheno, la due giorni di incontri fra patriarca, vescovi e sacerdoti della chiesa caldea per ripensare all’opera di evangelizzazione e al ruolo del sacerdote nella comunità. La due giorni ha evidenziato l’esigenza di rilanciare l’azione e l’opera pastorale della Chiesa irachena e la missione nel Paese e fra le comunità della diaspora, rafforzando “la nostra fede e la nostra speranza”; nonché di assumersi la “responsabilità” di quanto “sta accadendo” in una nazione e in una regione caratterizzata da “saccheggi, devastazioni, violenze e migrazioni”.
In una nota pubblicata sul sito del patriarcato caldeo, a firma di Mar Louis Raphael Sako, l’incontro del clero caldeo si presenta come una occasione per riflettere davanti ai “rapidi cambiamenti politici e sociali” che si sono verificati in Iraq nell’ultimo decennio. Dall’invasione statunitense e la successiva caduta del ra’s Saddam Hussein, la nazione ha vissuto un cambiamento che ha “colpito tutti i ceti sociali”. Uno stravolgimento politico, sociale e umano che ha investito “la vita stessa del sacerdote” e che, in questo Anno della misericordia indetto da papa Francesco, deve diventare esso stesso uno spunto per rinnovare la missione.
Il futuro della comunità caldea si basa in gran parte sulla qualità del suo clero; ecco perché alla base dell’incontro di Erbil vi è il desiderio da parte dei vertici della Chiesa locale di “trovare un nuovo stile di gestione” delle sfide e rispondere alle necessità dei fedeli “nel Paese natale e nella diaspora”. A questo si aggiunge il proposito di trovare “nuove modalità” per “vivere il cammino sacerdotale”, un servizio che richiede “una preparazione accurata” dal punto di vista culturale e psicologico. “Il sacerdote – si legge nella nota patriarcale – deve essere testimonianza di Cristo” e vivere con la propria gente, condividerne il cuore “non con le parole, ma con il suo esempio”.
Il patriarcato ha voluto sottolineare il successo della giornata di digiuno e preghiera che si è tenuta lo scorso venerdì 17 giugno, in “solidarietà” con i musulmani nel mese sacro di Ramadan. L’invito è stato accolto con favore “da molte chiese a Baghdad e in tutto l’Iraq”, a dispetto di alcune polemiche emerse nei giorni precedenti sull’opportunità di condividere un precetto caratteristico di un’altra fede: condividere il digiuno e la preghiera, spiegano fonti del patriarcato, è stato “un messaggio di amore e fratellanza” e un segno di “rispetto” nelle relazioni fra musulmani e cristiani, oltre che un “rifiuto dell’ideologia estremista, della divisione e dell’odio”.
In concomitanza con la giornata di digiuno e preghiera, il patriarcato caldeo aveva anche deciso di stanziare 50mila dollari per l’acquisto di pacchi di cibo e altri generi di prima necessità da destinare alle famiglie sfollate di Anbar e Fallujah, in larghissima maggioranza musulmane. Una iniziativa condivisa da molte famiglie cristiane della capitale, che hanno “dato una mano” in modo “silenzioso” per l’allestimento degli aiuti.