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Imparate dalla pianta del fico

Foto di Couleur da Pixabay

Siamo giunti alla penultima domenica dell’anno liturgico, che si concluderà domenica prossima con la festa di Cristo Re dell’universo. Ogni anno, nella penultima domenica, la Parola di Dio ci invita ad alzare lo sguardo verso gli orizzonti della storia per rinnovare la nostra speranza nel ritorno del Signore. Allo stesso tempo, però, con la celebrazione della Giornata Mondiale dei Poveri in questa stessa domenica, ci spinge a riconoscere la sua presenza nei più poveri e bisognosi.

Il brano evangelico di oggi fa parte del capitolo 13 di San Marco, interamente dedicato al cosiddetto discorso sulla fine del mondo. L’inizio del capitolo introduce le circostanze di questo discorso. Mentre uscivano dal Tempio, uno dei discepoli fece notare a Gesù la grandiosità delle sue costruzioni.  Il Tempio, ricostruito da Erode il Grande, era davvero magnifico, una delle meraviglie dell’epoca.  Gesù gli rispose: “Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta.” Possiamo immaginare lo stupore e lo sconcerto di tutti. Questo si realizzerà con la distruzione della città nell’anno 70, ad opera dei Romani.

Mentre si trovavano sul monte degli Ulivi, seduti di fronte al Tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea, i primi quattro discepoli chiamati da Gesù, lo interrogarono in disparte su quando e quale sarebbe stato il segno che tale profezia stava per compiersi. Gesù pronunciò allora il cosiddetto “discorso apocalittico”, il più lungo insegnamento di Gesù nel Vangelo di Marco. In collegamento con la distruzione del Tempio e della città santa, Gesù parla della fine del mondo e del suo ritorno in gloria. Questo abbinamento tra la fine della nazione ebraica e il ritorno del Signore portò i primi cristiani a pensare che la fine fosse imminente.

Per capire il messaggio del testo, bisogna tenere presenti due cose. Prima di tutto, il testo è redatto nel cosiddetto genere apocalittico, difficile da comprendere per noi a causa del linguaggio simbolico complesso, spesso esoterico, e degli scenari cosmici. “Apocalisse” significa “rivelazione”. Tuttavia, non si tratta di una profezia sul futuro, come spesso si crede, ma della rivelazione del senso degli eventi della storia. In secondo luogo, questo genere letterario, che fiorì tra il secondo secolo a.C. e il secondo secolo d.C., non intendeva spaventare, ma offrire conforto e speranza al popolo di Dio in tempi di tribolazione e persecuzione, annunciando l’intervento di Dio per liberare il suo popolo. Potremmo dire che la letteratura apocalittica parla non “della fine” del mondo, ma “del fine” del mondo, cioè del senso degli eventi, verso dove va la storia!

Spunti di riflessione

  1. La fine di questo mondo è già avviata!

“In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.” Lo sconvolgimento del sole, della luna e delle stelle sembra un’allusione alla creazione in Genesi 1, come se stesse per avvenire una de-creazione. Un riferimento a uno scenario cosmico appare anche nel racconto della morte di Gesù nei Vangeli sinottici (Marco, Matteo e Luca). Infatti, con la crocifissione del Figlio di Dio, cadono il “firmamento” del cielo, cioè le sicurezze e i punti di riferimento dell’uomo, e tutte le immagini che l’uomo si era fatto di Dio. Con la risurrezione di Cristo è avviato il processo della nuova creazione, dei cieli nuovi e della terra nuova. (2 Pietro 3,13).

  1. La fine di questo mondo è oggetto della nostra speranza

“Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria”. Noi attendiamo questa venuta del Signore. Lo professiamo nel cuore dell’Eucaristia: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”.  Questo non significa augurarsi la “fine del mondo” o una “catastrofe apocalittica”, e tanto meno cercare di indovinare l’ora del suo arrivo attraverso i “segni” di guerre, terremoti, carestie, persecuzioni, tribolazioni, abomini… Queste realtà sono sempre esistite. A noi basta sapere che tutto ciò è nelle mani del Padre.

“Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina.” Il fico annuncia l’arrivo dell’estate, la stagione dei frutti. Così è per il cristiano, che attende con gioia la maturazione dei tempi e l’incontro con Gesù. Il libro dell’Apocalisse si conclude con questa risposta di Gesù alla preghiera della Chiesa: “Sì, vengo presto! Amen. Vieni, Signore Gesù”.

  1. Operatori della fine di questo mondo

“Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. Meditando su questo Vangelo, il cristiano cresce nella consapevolezza della provvisorietà della vita e della storia. La “fine del mondo” è, in fondo, una realtà di ogni giorno: ogni giorno un mondo muore e uno nasce. “Si va di inizio in inizio, attraverso inizi sempre nuovi”, dice San Gregorio di Nissa. Tutto passa. Solo due cose rimangono: la Parola del Signore e la carità (1 Corinzi 13,8).

La nostra attesa, però, non è passiva, ma attiva e operosa. Siamo coinvolti nella preparazione della venuta del Regno. Come? Scuotendo il “firmamento” degli astri e delle stelle che regolano il mondo attuale! Sole, luna, stelle, astri erano divinità nel mondo pagano antico, che governavano la vita degli uomini. Basta pensare che ogni giorno della settimana era dedicato a un astro. Sono cambiati i nomi delle stelle e degli astri, ma il firmamento del nostro mondo continua a essere popolato da dèi che fanno il buono e il cattivo tempo: affari, borsa, potere, prestigio, bellezza, piacere… L’“oroscopo” del cristiano ha un altro firmamento di astri: amore, fraternità, solidarietà, servizio, giustizia, compassione… Per scuotere le fondamenta del “vecchio mondo”, bisogna sconvolgere il “firmamento” che lo governa. Il compito è tutt’altro che facile. Da dove iniziare? Da noi stessi: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare, rinnovando il vostro modo di pensare.” (Romani 12,2).

padre Manuel João Pereira Correia: