All'alba del 29 settembre 2018 l'edizione straordinaria del Tg1 annunciò l'inaspettato evento agli italiani: “E' morto il Papa Giovanni Paolo I“. Non solo i cattolici, ma tutti rimasero colpiti come se, con quella notizia, avessero appena ricevuto un pugno nello stomaco. Una reazione collettiva, dominata dall'emotività suscitata dalla durata troppo breve di un pontificato che sin dal primo giorno era stato percepito come un'opportunità. La sua figura sorridente, rassicurante, in cui era facile immedesimarsi aveva suscitato l'entusiasmo “d'ufficio” dei media, ma anche quello convinto dei fedeli. E tanti non credenti si erano riscoperti ben predisposti verso un capo religioso, desiderosi di approfondirne la conoscenza, intenzionati a rinviare quell'”incontro” ad un appuntamento futuro ma non lontano. Sono passati esattamente 40 anni dalla notte in cui terminò l'undicesimo pontificato più breve nella storia millenaria della Chiesa. Ancora oggi di Giovanni Paolo I persiste un ricordo collettivo dominato dal rimpianto. Durante questi 4 decenni successivi all'anno dei “tre Papi”, si è scritto tanto – e molto spesso male – della sua morte, ma poco – e non di rado con superficialità – sullo spessore teologico e pastorale di Albino Luciani.
Pastore gioviale ma risoluto
L'immagine stereotipata di Giovanni Paolo I tende a ridurlo a “Papa del sorriso”, uomo semplice, prelato sprovveduto scelto per essere manovrato da fantomatici pescecani curiali. Questa ricostruzione semplicistica appare influenzata da un nemmeno troppo velato pregiudizio anticattolico. Quando venne scelto come 263esimo successore di Pietro, Albino Luciani non era un parroco di campagna: ne conservava l'umiltà d'animo e la semplicità dei modi, ma poteva essere considerato già uno dei cardinali italiani più importanti nel Collegio in quanto Patriarca di Venezia. Una sede metropolitana, non bisogna dimenticarlo, che solamente venti anni prima aveva dato un altro Papa, Giovanni XXIII. Albino Luciani non era un outsider, non era sconosciuto ai suoi “colleghi” cardinali: al contrario, specialmente agli italiani, maggioritari in Conclave, era nota la sua giovialità ma anche il polso di ferro con cui era solito risolvere le questioni più spinose. Già da vescovo di Vittorio Veneto, di fronte alla ribellione ripetuta della comunità di Montaner che voleva imporre alla diocesi il nome del parroco per motivi principalmente ideologici, Luciani non esitò a piombare in paese, portare via il tabernacolo con l'eucarestia ed annunciare l'interdizione canonica contro la parrocchia. Una decisione sofferta, da cui scaturì uno scisma ma resa obbligata anche dalla necessità di difendere l'incolumità dei sacerdoti inviati lì per svolgere il loro mandato e che furono ripetutamente intimiditi e cacciati dai “ribelli”. Dietro al sorriso, dunque, non si nascondeva un “bonaccione”. Tutt'altro: Albino Luciani fu vescovo grintoso, mai arrendevole, pronto a confrontarsi con tutti ma non certo intimorito nel dover prendere una posizione, seppur scomoda. Uno dei suoi ritratti più veritieri, in questo senso, lo fornì l'allora cardinale Ratzinger nel 2003: “Era un santo – disse il futuro Benedetto XVI – per la sua grande bontà, semplicità, umiltà. E per il suo grande coraggio. Perché aveva anche il coraggio di dire le cose con grande chiarezza, anche andando contro le opinioni correnti“. Lo dimostrò, ad esempio, durante la campagna per il referendum abrogativo del 1974 sul divorzio. Quando la Fuci di Venezia stampò un pamphlet a favore della legge divorzista, in contrasto con le indicazioni della Cei, il Patriarca prese la decisione di sciogliere il gruppo universitario. Pochi mesi dopo, il cardinal Luciani non ebbe timori, per amore della verità, di protestare pubblicamente in un'omelia contro la versione dell'opera “Autos sacramentales” di Pedro Calderón de la Barca messa in scena alla Biennale dal regista argentino Garcia Victor.
L'eredità del Concilio
Non fu improvvisata, dunque, la decisione dei cardinali nel Conclave chiamato a scegliere, con l'aiuto dello Spirito Santo, il successore di Paolo VI. Il profilo di Albino Luciani venne ritenuto il più adatto a gestire una fase delicatissima per la Chiesa Cattolica appena uscita dal Vaticano II, alle prese con i problemi esterni legati all'avanzata della secolarizzazione ma anche con quelli interni dovuti alle spinte oltranziste dei cosiddetti “preti operai” e con le velleità restauratrici di chi faticava ad accettare le novità conciliari. E' lecito pensare che Giovanni Paolo I sarebbe stato il mediatore che poi si rivelò essere il suo successore, Karol Wojtyla, chiamato a preservare l'unità della Chiesa e a facilitare la ricezione del Concilio : da una parte, quel suo essere “conservatore” in materia di dottrina poteva costituire una garanzia per frenare la fuoriuscita dell'ala più tradizionalista; dall'altra la sua apertura sulle questioni sociali e la sua allergia per alcuni “medievalismi” esteriori potevano rappresentare un argine alla forza attrattiva dei “preti operai”. Una lettura del pontificato che avanzò Giovanni Trovati, editorialista del “La Stampa” di cui poi fu vicedirettore, a commento dell'elezione appena avvenuta: “Luciani – scrisse il giornalista – propone di applicare le norme del Concilio, continuando l'opera dei suoi due predecessori, chiarendo che si debbano frenare gli impulsivi e spronare i lenti“. Ripristinare la disciplina, mantenendo l'unità e non retrocedendo sulla strada della collegialità. Una linea simile a quella ratzingeriana dell'”ermeneutica della continuità” e che, dai discorsi fatti nei 33 giorni di “regno”, potrebbe apparire come una sorta di manifesto programmatico del pontificato. Nel radiomessaggio “Urbi et orbi” del 27 agosto 1978, Papa Luciani spiegò: “Vogliamo continuare nella prosecuzione dell'eredità del Concilio Vaticano II, le cui norme sapienti devono tuttora essere guidate a compimento, vegliando a che una spinta, generosa forse ma improvvida, non ne travisi i contenuti e i significati, e altrettanto che forze frenanti e timide non ne rallentino il magnifico impulso di rinnovamento e di vita“. Uno scopo da raggiungere senza rotture, mantenendo intatto il cordone con la tradizione millenaria: Infatti, Giovanni Paolo I esortò a “conservare intatta la grande disciplina della Chiesa, nella vita dei sacerdoti e dei fedeli, quale la collaudata ricchezza della sua storia ha assicurato nei secoli con esempi di santità e di eroismo, sia nell'esercizio delle virtù evangeliche sia nel servizio dei poveri, degli umili, degli indifesi”.
Nel segno della continuità
All'indomani dell'elezione, Giovanni Spadolini, grande storico e leader repubblicano, realizzò un identikit significativo del nuovo Pontefice frutto anche della conoscenza personale negli anni di Venezia: “La sua intransigenza dottrinaria, soprattutto nelle questioni di fede e di morale, mi parve assoluta, quasi alla Pio X. Non c'era nel pastore d'anime col quale conversavo nelle sale della Fondazione Cini, nulla di quel culto della modernità o del modernismo, anche solo intellettuale che caratterizzò interi settori dell'episcopato, nella generale, profonda crisi di valori e talvolta d'identità cui il mondo cattolico non poteva certo restare estraneo. Non è assurdo pensare ad una fase di contenimento di determinati impulsi innovatori, d'arresto di talune svolte rivoluzionarie, almeno nella sfera della teologia e della liturgia”. Papa Luciani, dunque, voleva una Chiesa che, come scrisse Trovati, “va incontro al mondo ma non cede ad esso”. Uno scopo che Giovanni Paolo I – come annunciò lui stesso nel radiomessaggio citato- avrebbe voluto perseguire “superando le tensioni interne, che qua e là si sono potute creare, vincendo le tentazioni dell'uniformarsi ai gusti e ai costumi del mondo, come ai titillamenti del facile applauso, uniti nell'unico vincolo dell'amore che deve informare la vita intima della Chiesa come anche le forme esterne della sua disciplina”.