Il governo locale del Tibet ha annunciato un periodo di “Rettifica e pulizia”: edifici religiosi e luoghi di preghiera buddista di costruzione “troppo recente” verranno completamente distrutti, mentre le autorità hanno proibito ai monasteri di accettare giovani che hanno meno di 12 anni e le centinaia di bambini che come tradizione stanno studiando nei luoghi culto: “Devono tornare a casa – hanno affermato le forze dell’ordine – o verranno deportati con la forza”.
La campagna contro la distruzione, partita lo scorso 20 settembre, è guidata dal Dalai Lama in esilio e coadiuvata da un piccolo pamphlet di circa 30 pagine distribuito ai funzionari comunisti del luogo per spiegare le nuove “istruzioni” in materia. E l’epicentro è la contea di Driru, roccaforte storica della resistenza tibetana alla presenza cinese nella provincia.
Una fonte locale ripresa dal quotidiano tibetano Phayul afferma che “tutti gli stupa, i santuari e le pietre ‘mani’ (rocce su cui sono stati incisi i mantra) costruiti dopo il 2010 sono stati dichiarati illegali e ora saranno demoliti”. La distruzione, peraltro, è affidata proprio a coloro che li hanno costruiti, e se non lo faranno ci penserà comunque il governo. Ma il fatto sta facendo scoppiare proteste estreme: diversi monaci si sono auto-immolati a Lhasa, la capitale provinciale.
Una vicenda, quella tibetana, che trova numerose analogie nella campagna di demolizione contro chiese e croci cristiane che infuria da tempo nelle province meridionali della Cina, dove in nome di nuovi modelli urbanistici, si distruggono edifici protestanti e cattolici che avevano ricevuto tutti i permessi per l’edificazione.