Il mondo ha bisogno di pastori che sappiano “trattare con misericordia”, perché questo cambia il cuore delle persone e deve essere il centro propulsore di ogni azione pastorale e missionaria. Papa Francesco sviluppa questa convinzione in un lungo videomessaggio rivolto ai vescovi della Chiesa dell’America Latina e dei Caraibi (Celam) che celebra dal 27 al 30 agosto a Bogotá, in Colombia, il suo Giubileo della Misericordia.
Qual è la “sicura dottrina” dei cristiani? È semplice: il fatto che “siamo stati trattati con misericordia”. Al centro della riflessione giubilare con i vescovi del Celam, il Papa mette le parole che Paolo scrive a Timoteo, quella ammissione schietta e adamantina che Paolo – dice Francesco – fa senza volontà né di vittimismo né per giustificarsi né tantomeno per gloriarsi: Gesù “mi ha giudicato degno di fiducia”, io che in passato “ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede. Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io”.
Ciò su cui il Papa vuole soprattutto attirare l’attenzione è il verbo che Paolo usa e il modo. Con quell’espressione al passivo – “mi ha usato misericordia” – l’Apostolo mostra, sostiene Francesco, di essersi lasciato “misericordiare” da Cristo e che la fiducia che Gesù gli concede nonostante il suo passato di nemico gli ha letteralmente rovesciato il cuore. Questo evidenzia che “lungi dall’essere un’idea, un desiderio, una teoria o un’ideologia, la misericordia – ripete il Papa – è un modo concreto di ‘toccare’ la fragilità, di interagire con gli altri, di avvicinarsi l’un l’altro. È un modo concreto per avvicinare le persone quando sono in un momento difficile. Si tratta di un’azione che ci porta a fare il meglio per ciascuno in modo che gli altri si sentano trattati in una tale forma da capire che nella loro vita non è stata ancora detta l’ultima parola. Trattati in una tal maniera che chi si sente schiacciato dal peso dei suoi peccati, senta il sollievo di una nuova possibilità”.
“Il Dio di Paolo – commenta il Papa – genera un movimento che va dalle mani al cuore”. Per questo, prosegue, “il nostro modo di agire con gli altri non sarà mai” una “azione basata sulla paura”, ma sulla “speranza di cambiamento” che Cristo ha per chiunque. Francesco distingue: un’azione “basata sulla paura l’unica cosa che ottiene è di separare, dividere, cercare di distinguere con precisione chirurgica un lato all’altro”. È “un’azione che sottolinea il senso di colpa, la pena, l’‘hai sbagliato’”. Al contrario, “un’azione basata sulla speranza di cambiamento sottolinea fiducia nell’apprendimento, nel progredire, sempre alla ricerca di nuove opportunità”. Per questo, asserisce il Papa, “il tratto della misericordia risveglia sempre la creatività”.
“Non sposa un modello o una ricetta, ma ha la sana libertà di spirito di cercare il meglio per l’altro, in modo che questa persona possa comprenderlo. E questo smuove tutte le nostre capacità, i nostri spiriti, ci porta fuori dai nostri confini. Non è mai inutile verbosità – come dice Paolo – che ci impiglia in controversie senza fine, l’azione basata sulla speranza di cambiamento è un’instancabile intelligenza che fa battere il cuore e mettere urgenza alle nostre mani”. Vedendo Dio agire così potrebbe capitare, ammette Francesco, che possa acccaderci quello che è successo al figlio maggiore della parabola del figlio prodigo, di “scandalizzarci” per la tenerezza e l’abbraccio offerti al fratello che ha tradito. Questo avviene, osserva, perché “ci invade una logica separatista” che porta a ”fratturare” la realtà sociale in buoni e cattivi, santi e peccatori. E dietro ciò, soggiunge, si cela la “perdita della memoria” della verità che anche a noi Dio ha perdotato per primo.
“La misericordia non è una ‘teoria da maneggiare’: ‘Ah, adesso è di moda parlare di misericordia per questo Giubileo, e che so io, seguiamo la moda allora’. No, non è una teoria da brandire per applaudire la nostra accondiscendenza, ma è una storia di peccato da ricordare. Quale? La nostra, la mia e la vostra. E un amore di cui dare lode. Quale? Quello di Dio, che mi ha trattato con misericordia”. Dunque, tutta l’azione della Chiesa a ogni livello si “gioca”, indica Francesco, sul saper testimoniare questo aspetto, sapendo, come Paolo, il cambiamento che può indurre:
Paolo ci offre un indizio interessante: il tratto della misericordia. Ci ricorda che ciò che lo ha trasformato in apostolo è il come sia stato trattato, il modo in cui Dio è entrato nella sua vita: ‘Sono stato trattato con misericordia’. Ciò che lo ha reso discepolo è stata la fiducia che Dio gli ha dato, nonostante i suoi molti peccati. E questo ci ricorda che possiamo avere i migliori piani, i migliori progetti e teorie nel pensare alla nostra realtà, ma se manca questo “tratto di misericordia,” la nostra pastorale finirà troncata a metà strada”. “Siamo in teoria ‘missionari di misericordia’ e molte volte siamo più ‘maltrattatori’ che di buon tratto”, riconosce Francesco. Che rilancia: nel “mondo ferito” di oggi bisogna “promuovere, stimolare, accompagnare una pedagogia della misericordia. Il “cuore della pastorale”, dice, “è il tratto della misericordia”, che si “impara sulla base dell’esperienza”, di sentirsi perdonati e quindi di saper trattare i nostri fratelli “nello stesso modo” con il quale Dio “ci tratta, con il quale ci ha trattato”.
“Imparare a trattare con misericordia è imparare dal Maestro a farci prossimi, senza timore di quelli che sono stati scartati e che sono ‘marchiati’ e marchiati dal peccato. Imparare a stringere la mano a quello che è caduto senza paura dei commenti – conclude -. Ogni tratto che non sia misericordioso, per quel tanto che basta, alla fine si trasforma in maltrattamento. L’intelligenza starà nel migliorare i cammini della speranza, quelli che privilegiano il buon tratto e fanno brillare la misericordia”.