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Il Papa verso il Myanmar: lo strazio delle minoranze

Un Paese con enormi risorse economiche ma anche con grandi diseguaglianze sociali, dove i militari continuano ad avere in mano le vere leve del potere. E' questo il Myanmar, dove Papa Francesco si recherà in visita apostolica dal 27 al 30 novembre per poi recarsi in Bangladesh fino al 2 dicembre. Quale realtà troverà il S. Padre? “Il primo aspetto che emerge – spiega padre Bernardo Cervellera, direttore di Asianews, grande esperto della Chiesa e delle sue difficoltà in Oriente – è che le minoranze, in particolare quella cristiana (il 6,3% della popolazione di 51 milioni di abitanti, i cattolici sono circa 700.000 distribuiti in 16 diocesi) vivono in zone molto ricche di foreste e materie prime (come petrolio, gas, giada e diamanti). Tuttavia sono comunità poverissime. Solo grazie alla Chiesa si sono potuti realizzare dispensari, scuole, cooperative per impiantare un minimo di lavoro agricolo. Dal 1948 (data dell'indipendenza) il governo centrale si è 'dimenticato' di loro quando non ha messo in atto una vera e propria persecuzione. Negli anni della dittatura militare l'oppressione è stata durissima, con donne stuprate, cristiani cacciati dalle loro case, uomini presi e portati in prigione. Ora sta accadendo lo stesso con i rohingya ma non si possono dimenticare ad esempio i profughi karen al confine con la Thailandia. Papa Francesco troverà una Chiesa povera, in grande difficoltà ma impegnata in una evangelizzazione fatta di carità, di aiuti, di servizio alla popolazione. In Myanmar oltre il 31% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, ma nelle minoranze metà della gente è sotto la soglia di povertà”.

Il ruolo di Aung San Suu Kyi

A proposito dei rohingya, mezzo mondo se l'è presa con Aung San Suu Kyi, il premio Nobel per la pace per anni agli arresti e ora ministro degli Esteri. “Ed è stato un errore – sostiene padre Cervellera – E' una situazione molto polarizzata in cui la minoranza musulmana è solo uno dei problemi. Suu Kyi ha lanciato un programma di riconciliazione che prevede una serie di servizi sociali, scuole, ospedali… ma servono grandi investimenti. Il problema è che lei non ha in mano la situazione. I militari oltre a controllare i confini, hanno in pugno le leve dell'economia. Ogni tipo di commercio passa attraverso loro”. Il direttore di Asianews fa un esempio: “Ho avuto modo di vedere, in un territorio a nord della capitale Yangon, un'area grande quanto tre o quattro campi di calcio piena di tronchi enormi, del diametro di circa un metro, già scortecciati e pronti per essere portati in Cina. Legno pregiato, come mogano e tek, di cui il Myanmar è uno dei maggiori produttori insieme al Laos. Ma i proventi di tali risorse non vanno alla popolazione. Soprattutto i cristiani sono poverissimi. Nella diocesi di Loikaw, per esempio, l'unico edificio in muratura è l'episcopio, dove c'è anche una biblioteca dove possono studiare i seminaristi. Nel resto dei villaggi ci sono solo baracche di legno e fango”. Anche i cattolici sperano in Aung San Suu Kyi: “Il cardinale Bo, arcivescovo di Yangon, ne è il principale sponsor ecclesiale – dice padre Cervellera – Il suo progetto di riconciliazione, di uno Stato laico aperto a tutte le minoranze e a tutte le religioni è ben visto dalla Chiesa locale e penso che il viaggio del Papa sia finalizzato proprio a sostenerla”.

Gli interessi cinesi

Al di là della situazione della Chiesa, il problema è essenzialmente geopolitico, legato agli interessi della Cina. E il motivo è presto spiegato. Il regime di Pechino ha sempre sostenuto l'esercito birmano e continua a fare consistenti affari con i militari. Ora ci sono due progetti fondamentali. Dallo stato del Rakhine, dove vivono i rohingya, dovrebbe passare la “pipeline” destinata a portare petrolio e gas verso la Cina. L'altro progetto è quello di un'autostrada che colleghi la città cinese di Kunming al porto di Sittwe, capitale dello stato, uno scalo strategico, con le sue acque profonde, per evitare a navi e petroliere di passare dallo stretto di Malacca e di navigare nel Mar Cinese meridionale. In tutto questo, la crisi dei rohingya potrebbe essere un “casus belli” voluto dai militari per screditare Aung San Suu Kyi agli occhi dell'Occidente ed “eliminarla” dalla scena politica. Per una singolare coincidenza, le violenze contro i rohingya sono iniziate il giorno dopo la presentazione del rapporto dell'ex segretario dell'Onu Kofi Annan sulle violenze e le discriminazioni ai danni delle minoranze. E' vero che all'interno dell'etnia musulmana c'è il rischio concreto di infiltrazioni di organizzazioni terroristiche, dall'Isis ad al Qaeda, ma c'è anche il dubbio che dietro la dura repressione militare ci sia il benestare di Pechino a causa dei suoi forti interessi economici nell'area.

Nazionalismo buddista

Il premio Nobel, dunque, appare come l'unico vero argine per contrastare il dilagare del nazionalismo buddista, tra i cui monaci si sospetta, anche se è difficilmente dimostrabile, la presenza di elementi legati all'esercito birmano, il potentissimo Tatmadaw. Lo scorso 2 novembre per la prima volta Suu Kyi si è recata nel Rakhine per incontrare la comunità musulmana e cercare di convinverla che l'emergenza scoppiata ad agosto con la violenta repressione militare (per molti un'autentica pulizia etnica) è terminata. Tre gli obiettivi della “Signora”, come è chiamata in Myanmar: rimpatriare quanti sono fuggiti in Bangladesh; favorire il loro reinserimento, a prescindere dalla religione; promuovere la pace e lo sviluppo nella regione. Resta il nodo della cittadinanza, che non viene riconosciuta ai rohingya, considerati un “corpo estraneo”alla nazione birmana e non inseriti nei 135 gruppi etnici che compongono il mosaico del Paese. Al punto che anche al Papa è stato suggerito di non usare il termine rohingya ma l'espressione “minoranza musulmana del Rakhine“. Meglio non urtare la suscettibilità degli estremisti se si vuole favorire il processo di riconciliazione.

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