Esattamente 41 anni fa, i cardinali riuniti in conclave eleggevano il primo Papa slavo della storia. L’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla prese il nome di Giovanni Paolo II. E fin dal momento dell’annuncio alla folla dei fedeli riuniti in piazza San Pietro, fu chiaro che sul Soglio di Pietro era appena salito un grande personaggio.
L'origine della svolta
Tutto inizia in Polonia, Paese con una popolazione a grande maggioranza cattolica. E dove la Chiesa, forte, compatta, aveva un profondo radicamento in tutti i settori sociali. “Nel 1956, a Poznań, c’era stata la prima delle “piccole rivoluzioni”, come le chiamava il primate polacco, il cardinale Stefan Wyszyński, ma, pilotata da ambienti revisionisti, ancora interna al sistema, era finita nel nulla- osserva il vaticanista Gianfranco Svidercoschi, amico e collaboratore di Giovanni Paolo I I-. Nel 1968, a rivoltarsi erano stati intellettuali e studenti. Nel 1970, sul Baltico, la prima vera rivolta operaia, i primi sindacati clandestini. Nel 1976, a Radom e Ursus, erano di nuovo scesi in piazza i lavoratori, ma stavolta con l’appoggio degli altri gruppi sociali: da quella inedita solidarietà, quattro anni dopo, sarebbe nato il primo sindacato libero nell’impero comunista”.
Una data storica
Quel 16 ottobre intanto c’era stato, appunto, un evento straordinario: il 16 ottobre del 1978 dal Conclave era uscito eletto il cardinale Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia. Il primo Papa non italiano, dopo 456 anni. Un Papa che veniva dall’altra parte della “cortina di ferro”. Ed è qui che la storia aveva avuto un soprassalto. Perché, proprio grazie a chi in quel momento sedeva sulla cattedra di Pietro, Solidarność prima aveva resistito alla repressione, e poi era diventato l’apripista del grande cambiamento in senso democratico all’Est.
Notizia shock
Viene dall’Est la grande sorpresa, rievoca Svidercoschi. “Carolum…” Lassù, sul balcone della basilica di San Pietro, stava accadendo qualcosa di strano o, quantomeno, di incomprensibile. Il cardinale protodiacono, Pericle Felici, aveva cominciato ad annunciare, gaudium magnum, l’elezione del nuovo Papa. Però, dopo aver allungato all’infinito quell’ “Emi-nen-tis-si-mum ac Re-ve-ren-dis-si-mum”, e detto il nome, soltanto il nome, si era fermato di colpo. “Come se avesse perso improvvisamente la voce- ricostruisce il decano dei vaticanisti-.Fu un attimo, una frazione infinitesimale di tempo; ma, con la tensione che in piazza saliva spasmodicamente tra la folla, sembrò non finire mai. Interminabile, e carico di mistero”. Prete romano di quelli antichi, Felici era uomo sereno, pacioso, imperturbabile. E tuttavia, in quel momento, venne preso dall’emozione. Una fortissima emozione. Un po’ perché era cosciente d’essere sul punto di dare una notizia shock. Un po’ perché temeva di pronunciare male quel cognome mezzo ostrogoto; prima, aveva fatto anche delle prove, riuscite così così. “Ma, più di tutto, era emozionato per il ricordo di quando, neppure due mesi prima, lì, da quel balcone, aveva dato l’annuncio del successore di Paolo VI: Albino Luciani, patriarca di Venezia, e che aveva preso il nome di Giovanni Paolo- prosegue l’ex direttore dell’Osservatore Romano-. Felici era amico di Luciani, lo conosceva bene; e non si era meravigliato più di tanto a vedere come il nuovo Papa avesse conquistato immediatamente il cuore dei cattolici, ma anche l’attenzione del mondo laico, e della più vasta opinione pubblica”. Un consenso che aveva dietro più di un motivo, e non semplicemente formale.
La scelta del duplice nome
Già la scelta di quel duplice nome, che era chiaramente non solo un riconoscimento ai suoi due immediati predecessori, gli artefici del Vaticano II; ma anche l’avvio di un processo di pacificazione all’interno della Chiesa dopo il tribolatissimo periodo postconciliare. “E poi, il giorno dopo, la decisione, prima volta di un Papa, di parlare ai fedeli, abbandonando il plurale maiestatico, e confidando i suoi sentimenti, i timori che aveva provato all’approssimarsi dell’elezione – sottolinea Svidercoschi -. E ancora, l’inizio del pontificato con un rito spoglio di orpelli, senza incoronazione, senza trono, senza triregno: sanzionando, anche negli aspetti esteriori, il tramonto definitivo del potere temporale dei papi. Era, senza dubbio, una nuova maniera di esercitare il ministero petrino. Anche perché Giovanni Paolo ne aveva subito accentuato la dimensione pastorale, ricorrendo alla sua grande esperienza di catechista”. Fine del “monopolio” italiano, dunque.
Un attimo lunghissimo
“Vo-i-ti-ua”, disse finalmente il cardinale Felici, scandendo le sillabe. E visibilmente soddisfatto per aver superato l’emozione, e per aver pronunciato bene quell’impronunciabile Wojtyla. Fu allora che accadde qualcosa di ancora più straordinario. “A sentire quel nome, in piazza San Pietro scoppiò un incredibile sconcertante silenzio- spiega Svidercoschi-. Anche questa volta, durò un attimo soltanto e, anche questa volta, sembrò invece lunghissimo. Molti non sapevano neppure chi fosse il nuovo Papa, da dove venisse. Qualcuno urlò: “È africano!”. Felici, intanto, continuava, ricordando che l’eletto aveva preso il nome di Giovanni Paolo. E, solo a quel punto, l’applauso diventò un uragano. Caldissimo. Entusiasta. Sì, certo, tutti adesso capirono che era un Papa non italiano. Ma, almeno sul momento, non pensarono a tutto ciò che questo evento avrebbe segnato nella storia. Conferendo un significato finalmente reale, visibile, e quindi credibile, alla universalità della Chiesa cattolica”. Il primo Papa non italiano dal tempo dell’olandese Adriano VI, dopo quattrocentocinquantasei anni. Dunque, la fine di quel rapporto strettissimo che, dopo il Concilio di Trento, si era instaurato tra il papato e l’Italia. “Come dire, la fine del monopolio italiano, andato avanti, spesso, solo per la paura di cambiare, sulla elezione pontificia- evidenzia Svidercoschi-.E, insieme a tutto questo, il primo Papa slavo, polacco. Un Papa che veniva da dietro la “cortina di ferro”, dall’“altra” Europa, dominata dal regime comunista. C’era ancora la Guerra fredda. C’erano ancora due superpotenze, Urss e Usa, che si contendevano il potere sul mondo”. In conclave, quando si stava delineando una scelta maggioritaria su Wojtyla, il cardinale Stefano Wyszyński, primate polacco, era andato da lui, nella sua cella, a confortarlo, a sostenerlo. “Se ti eleggono – gli aveva detto – ti prego: non rifiutare. Devi accompagnare la Chiesa al terzo millennio”. Missione compiuta fino alla santità.