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Francesco e Welby per un vero ecumenismo

E' all’insegna dell’ecumenismo e del dialogo per superare la separazione fra fratelli l’udienza oggi in Vaticano nel corso della quale papa Francesco riceve l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby e l’arcivescovo Ian Ernest, direttore del Centro Anglicano di Roma e rappresentante della Chiesa anglicana presso la Santa Sede.

La lezione di Giovanni XXIII

L’ecumenismo ha nel Concilio il suo momento più alto e intenso. Promuovere il ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani è stato uno dei principali intenti del Vaticano II. Conversando con i giornalisti sul volo di ritorno dalla GMG di Rio de Janeiro, Francesco ha ricostruito le radici ecumeniche e conciliari del proprio pontificato attraverso il debito di riconoscenza verso Angelo Roncalli. “Giovanni XXIII è un po’ la figura del prete di campagna, del prete che ama ognuno dei fedeli, che sa curare i fedeli”, ha sottolineato papa Bergoglio. “E questo lo ha fatto come vescovo, come nunzio. Tante testimonianze di Battesimo false ha fatto in Turchia in favore degli ebrei! Era un coraggioso. Prete di campagna, buono, con un senso dell’umorismo tanto grande e una grande santità”. E ancora: “Quand’era nunzio, alcuni non gli volevano tanto bene in Vaticano, e quando arrivava per portare i conti, o chiedere a certi uffici, lo facevano aspettare. Mai se ne è lamentato. Pregava il rosario, leggeva il breviario… Mai. Un mite, un umile”. E Giovanni XXIII, puntualizza Francesco, era anche “uno che si preoccupava per i poveri: quando il cardinale Casaroli è tornato da una missione, credo fosse l’Ungheria o la Cecoslovacchia, non ricordo, è andato da lui a spiegare come era stata la missione, la diplomazia dei piccoli passi, lo ha ricevuto in udienza, venti giorni dopo moriva, Giovanni XXIII, e quando Casaroli se ne andava lo fermò, “Ah, eccellenza, una domanda: lei continua ad andare da quei giovani?”. Perché Casaroli andava a trovare al carcere minorile di Casal del Marmo, giocava con loro… E Casaroli: “Sì, sì”. “Non li abbandoni mai”. Questo a un diplomatico che arrivava da un viaggio così impegnativo… Giovanni XXIII “Non li abbandoni mai”. Un grande. Un grande». E poi, continua Francesco, ”il Concilio, un uomo docile alla voce di Dio. Perché quello gli è venuto dallo Spirito Santo, e lui è stato docile. Pio XII pensava a farlo, ma le circostanze non erano mature per farlo. Giovanni XXIII non ha pensato alle circostanze, ha sentito quello e lo ha fatto, un uomo che si è lasciato guidare dal Signore”.

Una riappacificazione sulle orme del Concilio

Inquadrare teologicamente la svolta conciliare consente di rintracciarne i tentativi di attuazione nel pontificato riformatore di Jorge Mario Bergoglio. Contro lo scandalo della separazione tra fratelli Il decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio del Concilio rappresenta un punto di arrivo, di non ritorno e di partenza per la Chiesa cattolica, con affermazioni significative e vincolanti per un cammino di fondamentale importanza. Secondo Orioldo Marson, docente di teologia fondamentale e sistematica e direttore dell’istituto di scienze religiose di Portogruaro, la vibrante e commossa preghiera di Gesù (ut unum sint) interpella i cristiani a cercare le vie della riconciliazione e del dialogo verso l’unità in Cristo. L’ecumenismo rappresenta un disegno di grazia, posto sotto la forza dello Spirito che ha effuso con maggiore abbondanza nei cristiani tra loro separati l’interiore ravvedimento e il desiderio dell’unione, un segno dei tempi da riconoscere e accogliere a servizio dell’unità del genere umano. E dallo spirito ecumenico nasce una tensione evangelica rivolta ad abbattere i muri della divisione e a costruire ponti fra l’incontro fra religioni, popoli e culture. L’inizio del movimento ecumenico moderno risale al 1910, l’anno dell’assemblea missionaria di Edinburgo quando i rappresentanti delle società missionarie protestanti, più di 1300 persone, si riuniscono per trovare rimedio agli scandali e ai danni causati alla missione dalla divisione tra le Chiese. A giudizio di Marson l’annuncio del Concilio da parte di Giovanni XXIII, in un giorno emblematico, il 25 gennaio 1959, nella cattedrale romana di San Paolo fuori le mura, segna una svolta provvidenziale nel cammino ecumenico della Chiesa cattolica. La preoccupazione per l’unità dei cristiani è ben presente nel cuore e nel pensiero di papa Roncalli. Il Concilio ecumenico non ha soltanto lo scopo del bene spirituale del popolo cristiano. Esso vuole essere anche un invito alle comunità separate per la ricerca dell’unità alla quale tante anime aspirano in tutte le parti della terra. L’invito rivolto agli osservatori di tutte le Chiese a presenziare alle assemblee conciliari è un gesto di notevole portata.

Lo scandalo delle divisioni tra cristiani

Dopo anni di silenzi ufficiali, di scambi per lo più sotterranei e lasciati all’iniziativa personale, la Chiesa cattolica coglie l’urgenza del dialogo ecumenico. L’intero Vaticano II si è svolto sotto il segno dell’ecumenismo, per lo spirito presente nei lavori conciliari come anche per la prospettiva generale dei documenti. Nella costituzione sulla Chiesa, la Lumen Gentium, dal punto di vista ecumenico, sono significative due scelte che riguardano la struttura generale del documento. L’esposizione inizia presentando il popolo di Dio nel suo insieme, prima di trattare della costituzione gerarchica della Chiesa. Per Marson se la Chiesa cattolica ha ricevuto dall’esterno l’ecumenismo, con il Concilio ne ha fatto il suo programma. Dal Concilio sono nati gli impulsi che hanno permesso non solo l’istituzione del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, ma anche una lunga serie di dialoghi bilaterali e multilaterali tra le diverse Chiese. La riscoperta della fraternità tra i cristiani, come scrisse Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut Unum Sint, rappresenta il grande frutto del cammino ecumenico. Il Concilio ha rappresentato la svolta che ha consentito la partecipazione cattolica al movimento ecumenico.

Gli elementi della svolta

La costituzione del Segretariato per l’unione dei cristiani, la presenza al Concilio di osservatori non cattolici, i documenti conciliari, la domanda e l’offerta di perdono da parte di Paolo VI agli altri cristiani per i peccati commessi contro l’umanità, costituiscono altrettanti elementi di questa svolta. A partire dal 1965 la Chiesa cattolica è entrata in dialogo, a livello internazionale e locale con tutte le altre grandi famiglie di Chiese cristiane. I dialoghi bilaterali con le principali famiglie confessionali e comunioni cristiane mondiali rappresentano una forma di impegno ecumenico particolarmente congeniale alla Chiesa cattolica. Il 5 dicembre 1965, nel corso di un’udienza generale, Paolo VI diceva che il Concilio, per sua natura, è un fatto che deve durare. Se davvero esso è stato un atto importante, storico e, sotto certi aspetti, decisivo per la vita della Chiesa, è chiaro che “noi lo troveremo sui nostri passi ancora per lungo tempo; ed è bene che sia così”. E così è stato, da cinquant’anni a questa parte, senza smentire, nemmeno per un istante, la profetica considerazione del primo papa moderno (come lo hanno definito i biografi) che accompagna la Chiesa a misurarsi con le intuizioni del Concilio Vaticano II, un evento – precisava Paolo VI – “che prolunga i suoi effetti ben oltre il periodo della sua effettiva celebrazione. Deve durare, deve farsi sentire, deve influire sulla vita della Chiesa”.

Santità e laicato

In occasione del 50° anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II (8 dicembre 1965-2015) è stato pubblicato un volume, Il Concilio Vaticano II in Italia cinquant’anni dopo, curato da padre Aldino Cazzago (Roma 2015, pp. 124). Si tratta di una breve raccolta di saggi (la santità, il laicato, il catecumenato, i movimenti e l’arte sacra), scritti con l’intento di aiutare a comprendere in che modo alcuni degli insegnamenti del Concilio sono stati recepiti e poi tradotti nella vita della Chiesa italiana. Oggi, secondo Cazzago, la conoscenza del Concilio, della genesi dei suoi documenti e dei suoi principali protagonisti ha fatto enormi passi in avanti. Grazie, poi, alla recente pubblicazione di numerosi diari, memorie e materiale d’archivio dei protagonisti dei lavori conciliari, si è diffusa una miglior consapevolezza del clima e delle fatiche, delle gioie e delle delusioni che, seppur nascosti, stanno dietro l’elaborazione di ogni documento. Nel dicembre 2015 il sito di informazione religiosa Vatican Insider ha chiesto a Cazzago, direttore della rivista teologica Communio e Provinciale dei Carmelitani Scalzi veneti, di contestualizzare il Concilio e di valutarne le realizzazioni e gli sviluppi nel tempo, a mezzo secolo dalla sua conclusione. 8 dicembre 1965 – 8 dicembre 2015: la ricorrenza del 50° anniversario della fine del Vaticano II è l’occasione per un bilancio. L’importanza non sta nella cifra: 50 o 100, ma nella cosa, nella realtà che si ricorda. Non si parla del Sinodo di una Chiesa locale e nemmeno del Sinodo dei vescovi come quello che si è recentemente svolto in Vaticano sulla famiglia. Si parla di ciò che già nel 1965 il giovane vescovo di Cracovia, poi diventato Giovanni Paolo II, definì come un avvenimento epocale o il cardinale Giovanni Colombo, successore di Paolo VI a Milano, nel 1966 descrisse come una svolta epocale nella storia della Chiesa.

La primavera della Chiesa

Se non bastano questi riferimenti ci si può riferire alle parole di Francesco nella bolla di indizione dell’anno della misericordia quando scrive che la Chiesa sente il bisogno di mantenere vivo l’evento del Concilio. Non va dimenticato, infatti, che in un Concilio è coinvolta la Chiesa intera e non solo la Chiesa di questa o quella nazione. Anche il superiore generale dei carmelitani, padre Anastasio Ballestrero, partecipò al Concilio. Il cardinale Ballestrero, che fu vescovo di Bari e di Torino e presidente della Cei dal 1979 al 1985, ebbe sempre un giudizio assolutamente positivo sul Concilio. Negli ultimi anni della sua vita ripeteva spesso che è necessario continuare a meditare i testi del Concilio e renderli ispiratori dell’opera quotidiana di ciascuno. Paragonava il Concilio ad una primavera che ha avuto anche forti acquazzoni ma dei quali non bisogna avere paura. Intanto, però, molti chiedono un nuovo Concilio, un Vaticano III. A metà degli anni Settanta, il cardinale Pellegrino, conversando con il professor Giuseppe Lazzati disse che nella Chiesa qualcuno era ancora fermo al Vaticano I e che altri erano già passati al Vaticano III. In realtà il Concilio va apprezzato, prima che per le riforme a cui ha dato avvio, per il modo di pensare a cui ha dato forma. Paolo VI, ad una settimana dalla fine dei lavori conciliari, disse che il rinnovamento conciliare non si misura tanto dai cambiamenti di usi e norme esteriori, quanto dal cambiamento di certe abitudini mentali. Quindi, secondo padre Cazzago, sarebbe necessario verificare bene ciò che del Vaticano II è stato attuato e ciò che resta ancora da attuare. Questa richiesta era stata formulata anche da Giovanni Paolo II per il Giubileo del 2000 nella Novo Millennio Ineunte, la lettera nella quale paragona il Concilio ad una “bussola” che la Chiesa deve usare per orientarsi “nel cammino del secolo che si apre”.

Plasmare la mentalità

Le parole di Giovanni Paolo II sono ancor più significative se applicate ad esempio alle Chiese dell’Europa dell’Est uscite solo dopo il 1989 dal lungo inverno della mancanza di libertà e in particolare di quella religiosa. A giudizio di padre Cazzago, in fondo, il tema della Chiesa è stato «il» tema del Concilio. Dire Chiesa significa infatti dire popolo di Dio, significa dire identità e vocazione alla santità di questo popolo e in particolare della sua componente laicale. Quindi il capitolo della Lumen Gentium che parla della vocazione universale alla santità fu percepito da molti vescovi come un autentico punto di novità e forza. In pratica si tratta di ricostruire il percorso attraverso cui diventando cristiani si appartiene al popolo di Dio. Frutto del Concilio è anche la stagione dei movimenti ecclesiali. Oggi Francesco chiama tutti questi movimenti a collaborare all’unica e grande missione della Chiesa: quella di “rendere presente Cristo in mezzo agli uomini”, come diceva Henri de Lubac. A mezzo secolo dalla conclusione del Vaticano II la “sfida conciliare” è principalmente quella di verificare come, in che misura, con quali fatiche queste tematiche hanno plasmato la mentalità della Chiesa. Senza risparmiarsi interrogativi di fondo. E cioè, la maggioranza che ha approvato i documenti del Concilio era davvero un blocco monolitico o anche all’interno di quell’80 per cento c’erano diverse opinioni e sfumature? Che ruolo hanno avuto le «reti di opinione» nella formazione di un orientamento conciliare e nell’aggiornamento della teologia dei padri? Papa Roncalli pensava a un evento di pochi mesi, ma quale erano le aspettative di durata dei partecipanti? Ad alcune di queste domande ha provato a dare una risposta il convegno internazionale di studi (Il Concilio e i suoi protagonisti alla luce degli archivi) che si è svolto in Vaticano dal 9 all’11 dicembre 63 Capitolo 5 2015. L’incontro di studi è stato promosso da Bernard Ardura, presidente del Pontificio comitato di scienze storiche e da Philippe Chenaux, direttore del Centro studi e ricerche sul Concilio Vaticano II. Il convegno ha idealmente completato quello del 2012 che aveva indagato gli archivi diocesani, religiosi, universitari e anche privati che conservano documenti appartenuti ai partecipanti al Concilio. In particolare si è trattato di illustrare delle figure dei principali vescovi e ricostruire reti di opinione create prima e in occasione del Concilio e che ebbero un notevole ruolo nella formazione delle convinzioni di molti padri conciliari. Occorre, infatti, indagare sulle diversità e divergenze poiché, secondo Ardura, l’unanimità fortemente auspicata da Paolo VI per l’approvazione dei documenti conciliari ha lasciato nell’ombra le opinioni di una minoranza tuttavia ben organizzata, con alcuni protagonisti di queste correnti, tra cui, per esempio, monsignor Lefebvre. All’interno della maggioranza di più dell’80% c’erano divisioni, perciò non è corretto presentarla come un blocco monolitico. Una riflessione che raccoglie gli echi di dibattiti anche accesi sulla ermeneutica del Concilio, se in continuità o in discontinuità con tradizione e storia della Chiesa, o anche sul ruolo dei media. Secondo Ardura, dopo cinquant’anni alcune passioni si sono un po’ placate, siamo in una fase in cui sembra possibile una miglior comprensione del Concilio ma non ciò non deve stupire perché concili come per esempio quello di Trento hanno avuto bisogno di un secolo per portare tutti i frutti.

Vocazione ecumenica e interreligiosa

A conferma dell’intrinseca vocazione ecumenica e interreligiosa del Vaticano II hanno preso parte al convegno del dicembre 2015 in Vaticano anche rappresentanti della Chiesa ortodossa russa e ucraina e della Comunione anglicana, ed è stato letto anche un messaggio del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. 64 Il Concilio di Francesco La sfida del mutamento culturale. “Si possono accostare le figure di Giovanni XXIII e di Francesco sia per l’empatia che li avvicina alle persone sia per il dinamismo di rinnovamento di cui sono portatori, segno di una grande libertà interiore radicata nel Vangelo”, dice padre Giacomo Costa, presidente della Fondazione culturale San Fedele di Milano e direttore di Aggiornamenti Sociali, il mensile dei gesuiti che, dal 1950, offre approfondimenti e analisi sulla vita sociale, politica ed ecclesiale italiana. E aggiunge: “Lo stile di Francesco è forse più fraterno che paterno, soprattutto nel rapportarsi con le altre comunità cristiane, le altre religioni e le persone al di fuori della Chiesa”. Ciò manifesta un modo diverso di vivere il ruolo di papa. Questa differenza dipende dall’indole personale di ciascuno, dalle esperienze fatte prima di essere eletti al soglio pontificio, ma segnala anche il mutamento culturale che in questi cinquant’anni ha avuto luogo, nella società nel suo complesso e all’interno della Chiesa. Un mutamento a cui ciascuno dei pontefici del post-Concilio ha dato il suo contributo: dalla rinuncia alla tiara di Paolo VI, alla proiezione globale dei viaggi di Giovanni Paolo II, fino al gesto di libertà e profonda spiritualità che sono state le dimissioni di Benedetto XVI. Il Concilio, secondo Costa, è stato messo in pratica più nel Sud America e nelle chiese povere che non in Europa.

Il ruolo dei laici

È sufficiente pensare per esempio alla liturgia viva, al senso di comunità, al ruolo dei catechisti e dei laici: cose che chi è stato in missione può raccontare, e che chi arriva da lì percepisce immediatamente. L’Europa, ai loro occhi appare come un mondo in cui la fede è morta e il Concilio inattuato. Significativamente Francesco ha iniziato il primo saluto dicendo “Buonasera!”, come si fa all’inizio di ogni celebrazione in Sud America introducendo la messa, e poi ha detto che il dovere del Conclave era di eleggere un vescovo per Roma. “Sembra che i miei confratelli cardinali abbiano dovuto andare a prenderlo quasi alla fine del mondo». Questo background culturale di Bergoglio si proietta sul pontificato. Oltretutto, molti immigrati dal Sud America lo vedono così, come uno che deve restituire la fede e la devozione vera all’ Europa. Francesco porta nel cuore della Chiesa l’esperienza vissuta in un contesto diverso da quello occidentale ed europeo: quello dell’America Latina e in particolare delle megalopoli del Terzo Mondo e delle loro periferie. Del resto, leggendo l’enciclica Laudato si’ di Francesco appare evidente, anche nello stile, come non sia scritta da un europeo e questo chiede a noi di fare una certa fatica. Stessa cosa quando si guarda al Giubileo: la prima Porta santa è stata aperta a Bangui e non a Roma. Secondo Costa, “non ci siamo abituati, ma Bergoglio aiuta a ricordare che non siamo noi il centro”. Una scossa salutare perché una prospettiva diversa consente di uscire da alcune strettoie del pensiero occidentale e costituisce anche un arricchimento. È l’esperienza realizzata già in tanti Paesi europei.

Il poliedro

“Riconoscersi co-discepoli con altri non europei che abitano con noi e vivono la fede e celebrano in un modo che interroga e risveglia, magari un po’ più “devoto” di quanto siamo abituati”, sostiene il direttore di Aggiornamenti Sociali che l’ha vissuto personalmente nei suoi anni nelle periferie di Parigi. E anche il papa è stato sorpreso a sua volta dal modo africano di celebrare. È un circolo virtuoso in cui nessuno è maestro. E quanto più il tempo passa, tanto più il riferimento vitale al Concilio è chiamato a spostarsi da un piano di contenuti e categorie teologiche a quello di un metodo – il discernimento dei segni dei tempi e l’aggiornamento – che resta capace, in un contesto ormai significativamente mutato, di condurre a nuove elaborazioni. A giudizio di Costa, Francesco, forse proprio perché non ha partecipato al Vaticano II, è protagonista di questo vero e proprio aggiornamento del Concilio. In questo senso è radicalmente conciliare. Un esempio molto chiaro è l’uso del poliedro anziché della sfera come modello della realtà, con tutto quello che questo comporta in termini di salvaguardia della pluralità e delle differenze, all’interno della Chiesa e nel rapporto con la società. A differenza della sfera, identica da qualunque prospettiva la si guardi, il poliedro “riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità”. (Evangelii Gaudium 236): pur avendo la sua unità, ciascuna faccia mantiene la concretezza della propria individualità e l’aspetto dell’insieme dipende dal concorso di tutte.

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