Francesco: “Chiediamo perdono a chi è stato ferito dai nostri peccati”

A San Pietro, il Papa presiede la Veglia penitenziale che chiude il periodo di avvicinamento al prossimo Sinodo

Papa Veglia perdono
Foto © Vatican Media

È nella Basilica di San Pietro che, con la Veglia penitenziale, Papa Francesco conclude il periodo di preparazione al Sinodo. A scandire i tempi della riflessione e della preghiera, le richieste di perdono lette da altrettanti cardinali. Sette in tutto, che includono ogni atteggiamento o comportamento alla genesi di un sentimento di vergogna., come ricordato dal Papa stesso. Di seguito, il testo integrale della riflessione del Santo Padre.

La Veglia del Papa

Cari fratelli e sorelle,

come ci ricorda il Siracide, «la preghiera del povero attraversa le nubi» (35, 17). Noi siamo qui mendicanti della misericordia del Padre. La Chiesa è sempre Chiesa dei poveri in spirito e dei peccatori in ricerca di perdono, e non solo dei giusti e dei santi, anzi dei giusti e dei santi che si riconoscono poveri e peccatori. Ho voluto scrivere le richieste di perdono che sono state lette da alcuni cardinali, perché era necessario chiamare per nome i nostri principali peccati. Il peccato è sempre una ferita nelle relazioni: la relazione con Dio e la relazione con i fratelli e le sorelle. Nessuno si salva da solo, ma è vero ugualmente che il peccato di uno rilascia effetti su tanti: come tutto è connesso nel bene, lo è anche nel male. La Chiesa è nella sua essenza di fede e di annuncio sempre relazionale, e solo curando le relazioni malate, possiamo diventare una Chiesa sinodale. Come potremmo essere credibili nella missione se non riconosciamo i nostri errori e non ci chiniamo a curare le ferite che abbiamo provocato con i nostri peccati?

La cura della ferita comincia confessando il peccato che abbiamo compiuto. La parabola del Vangelo di Luca che abbiamo ascoltato ci presenta due uomini, un fariseo e un pubblicano, che vanno entrambi al tempio a pregare. Uno sta in piedi, con la fronte alta, l’altro resta indietro, con gli occhi bassi. Il fariseo riempie la scena con la sua statura che attira gli sguardi, imponendosi come modello. In questo modo presume di pregare, ma in realtà sta celebrando se stesso, mascherando nella sua effimera sicurezza le sue fragilità. Cosa si aspetta da Dio? Si attende un premio per i suoi meriti, e in questo modo si priva della sorpresa della gratuità della salvezza, fabbricandosi un dio che non potrebbe fare altro che sottoscrivere un certificato di perfezione presunta. Il suo io non dà spazio a niente e nessuno, nemmeno a Dio. Quante volte nella Chiesa ci comportiamo in questo modo? Quante volte abbiamo occupato tutto lo spazio anche noi, con le nostre parole, i nostri giudizi, i nostri titoli, la convinzione di avere soltanto meriti?

E in questo modo si perpetua quanto era avvenuto quando Giuseppe e Maria, e il Figlio di Dio nel suo ventre, bussavano alle porte cercando ospitalità. Gesù nascerà in una mangiatoia perché, come ci dice il Vangelo, «non c’era posto per loro nell’albergo» (Luca 2,7). Noi oggi siamo tutti come il pubblicano, abbiamo gli occhi bassi e proviamo vergogna per i nostri peccati. Come lui, rimaniamo indietro, liberando lo spazio occupato dalla presunzione, dall’ipocrisia e dall’orgoglio. Non potremmo invocare il nome di Dio senza chiedere perdono ai fratelli e alle sorelle, alla Terra e a tutte le creature. E come potremmo essere Chiesa sinodale senza riconciliazione? Come potremmo affermare di voler camminare insieme senza ricevere e donare il perdono che ristabilisce la comunione in Cristo? Il perdono, chiesto e donato, genera una nuova concordia in cui le diversità non si oppongono, e il lupo e l’agnello riescono a vivere insieme (cfr. Isaia 11, 6).

Di fronte al male e alla sofferenza innocente domandiamo: dove sei Signore? Ma la domanda dobbiamo rivolgerla a noi, e interrogarci sulle responsabilità che abbiamo quando non riusciamo a fermare il male con il bene. Non possiamo pretendere di risolvere i conflitti alimentando violenza che diventa sempre più efferata, riscattarci provocando dolore, salvarci con la morte dell’altro. Come possiamo inseguire una felicità pagata con il prezzo dell’infelicità dei fratelli e delle sorelle? Alla vigilia dell’inizio dell’Assemblea del Sinodo, la confessione è un’occasione per ristabilire fiducia nella Chiesa e nei suoi confronti, fiducia infranta dai nostri errori e peccati, e per cominciare a risanare le ferite che non smettono di sanguinare, spezzando «le catene della malvagità» (Isaia 58, 6). Lo diciamo nella preghiera dell’Adsumus con cui domani introdurremo la celebrazione del Sinodo: «Siamo qui oppressi dall’umanità del nostro peccato».

Questo peso non vorremmo che rallentasse il cammino del Regno di Dio nella storia. Noi abbiamo fatto la nostra parte, anche di errori. Continuiamo nella missione per quello che possiamo, ma ora ci rivolgiamo a voi giovani che aspettate da noi il passaggio di testimonianza, chiedendo perdono anche a voi se non siamo stati testimoni credibili. Nella memoria liturgica di santa Teresa di Gesù Bambino, patrona delle missioni, domandiamo la sua intercessione.

O Padre, siamo qui riuniti consapevoli di avere bisogno del tuo sguardo di amore. Abbiamo le mani vuote, possiamo ricevere solo quanto tu puoi donarci. Ti chiediamo perdono per tutti i nostri peccati, aiutaci a restaurare il tuo volto che abbiamo sfigurato con la nostra infedeltà. Chiediamo perdono, provando vergogna, a chi è stato ferito dai nostri peccati. Donaci il coraggio di un sincero pentimento per un’autentica conversione. Lo chiediamo invocando il Santo Spirito perché possa riempire della sua Grazia i cuori che hai creato, in Cristo Gesù nostro Signore.
Amen