Il commento di don Giovanni Mazzillo, teologo e autore di numerosi libri, sulla tradizionale preghiera dell’Eterno Riposo per la Commemorazione dei fedeli defunti. Riportiamo il testo pubblicato su L’Osservatore Romano.
L’eterno riposo e la fine dell’attesa
Ci prepariamo al 2 novembre. A cumuli di fiori ai cancelli dei cimiteri, affastellarsi di memorie che riemergono, volti che riprendono forma e vita, reviviscenza di una preghiera mai dimenticata, nemmeno da chi non frequenta da anni le chiese ma non manca di visitare questi luoghi, chiamati dai cristiani cimiteri, dormitori, da koimetérion, in evidente disaccordo teologico con la parola pagana nekrópolis, città dei morti. Quella preghiera, che tutti ripeteremo, L’eterno riposo, forse andrebbe riscritta perché non esprime al meglio non solo la teologia della «città del cielo» ma nemmeno quella del «riposo» del giorno della festa, che non è inattività e silenzio ma partecipazione all’opera di Dio e al suo compiacimento nel settimo giorno. Tuttavia, pur non osando ritoccare qualcosa che affonda le sue radici in una tradizione che, in latino, valica il millennio e deriva dall’apocrifo IV libro di Esdra, limitiamoci almeno a chiarire il suo messaggio perché la luce risplenda non solo ai «cittadini del cielo» che effettivamente vi sono arrivati ma anche a noi che vi siamo incamminati [«Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (Ebrei, 13, 14)].
Intanto riportiamo la traduzione dell’originale latino del testo attribuito a Esdra: «Per questa ragione dico a voi, gente che ascoltate e comprendete: attendete il vostro pastore, egli vi darà l’eterno riposo, perché è vicino colui che giunge alla fine dei secoli. Tenetevi pronti per i premi del Regno, perché la luce perpetua risplenderà per voi per l’eternità del tempo. Fuggite l’ombra di questo secolo, ricevete la gioia della vostra gloria. Io do pubblica testimonianza del mio salvatore. Ricevete il comandamento del Signore e rallegratevi, ringraziando colui che vi chiamò ai regni celesti» ( IV Esdra, 2, 34-35). È la conferma di un riposo che non è ozio prolungatamente indefinito quanto noioso. È, al contrario, la fine dell’attesa, l’arrivo del pastore che immette nel Regno, conferendo gioia e gloria (anche questa biblicamente intesa come manifestazione della bellezza divina). Solo con queste premesse il testo s’illumina di quella luce che rimanda a ciò che Gesù diceva di sé e di quanti lo seguono: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Giovanni, 8, 12). E diceva ancora: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (ibidem, 10, 10).
L’abbondanza, espressa con il termine greco perissòn, indica ciò che eccede la misura. Ma quale misura? Di certo anche quella della nostra immaginazione umana. Richiama la charitas sine modo di cui parlava don Tonino Bello, l’amore di Dio che non solo non cessa mai di finire ma che non smette mai di stupirci. L’abbondanza è non solo pienezza ma ricongiungimento alla nostra origine da cui proveniamo e che per tutta la vita abbiamo inseguito. È felicità piena perché è collaborare con Dio nel portare ancora avanti l’instaurazione completa nel suo Regno. È pertanto un “riposo” da ciò che era fatica sulla terra e ora è partecipazione all’opera creatrice di Dio e perciò compiacimento che la sua volontà si va compiendo e la sua regalità si va instaurando. Dappertutto? Dappertutto, anche se deve rialzare da continue cadute, rimettere in marcia chi si è fermato e rassegnato, ridare gioia a chi è stato sopraffatto dalla tristezza. Tutto il discorso finora fatto autorizza a intendere la tradizionale preghiera per i defunti così: «La gioia di averti raggiunto dona loro Signore / e splenda ai nostri cari la luce del cielo / ammettili a condividere per sempre, collaborando con te, / la bellezza infinita del Regno di Dio. Amen!».
Fonte: Osservatore Romano