Queste parole fanno parte di un pensiero di S. Agostino (354-430): “Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dov’erano, ma sono ovunque noi siamo…”, e ci introducono alla commemorazione dei defunti che ogni anno si celebra il 2 novembre. E’ il periodo che i cimiteri sia quelli più grandi e monumentali, che quelli nei più piccoli paesi, sono presi “letteralmente” d’assalto, parenti e amici sono pronti a portare un fiore e a recitare una preghiera.
La parola “cimitero” risale etimologicamente al greco “koimao”, che significa “dormire”, pertanto potremmo dire che i cimiteri sono i luoghi dove si dorme: sono da considerarsi dei dormitori. Questo giorno particolare serve sicuramente per riconoscere l’importanza che la persona ha avuto nella nostra vita e nella società, per rafforzare i legami: mantenere vivo il ricordo con la famiglia e la comunità. Naturalmente è un momento di riflessione e di conforto, sia per chi è rimasto e sia per chi è partito. Tutto questo ci fa pensare che non c’è nulla di definitivo e stabile sulla terra, ci viene in aiuto l’espressione latina “tempus fugit”, che a distanza di secoli, ci ricorda l’importanza di apprezzare e di non sprecare il tempo a disposizione, quel tempo riservato a ciascun individuo.
Non è facile e tantomeno semplice parlare o pensare alla morte, vuoi per la paura che essa rappresenta, vuoi per le solite forme di superstizione che fanno parte della natura dell’essere umano. Ci viene in mente la massima del filosofo greco Epicuro (341 a. C.-270 a.C.): “Quando ci siamo noi la morte non c’è, e quando c’è la morte, noi non ci siamo”.
La morte invece fa parte della nostra esistenza, tutti abbiamo vissuto il doloroso distacco da familiari o d amici, anche se in modi e circostanze diverse, abbiamo dovuto, nostro malgrado, conoscere le conseguenze di questo triste distacco. L’autore spagnolo Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616) universalmente noto per essere l’autore del romanzo Don Chisciotte, rivolgendosi agli amici disse: “Non piangete, sono io che devo morire!”.
Prima del cristianesimo, si era soliti credere che oltre la morte la vita continuasse, come non ricordare l’antico popolo egiziano che nella tomba del faraone, mettevano del cibo per il defunto. Ma, la venuta di Gesù, ha impresso nell’animo umano il concetto che tornando dai morti, ci ha restituito la vita, lo troviamo scritto nel preconio, il canto liturgico della notte che precede la Pasqua: “morendo ha distrutto la morte e risorgendo ci ha ridato la vita”. E così viene in mente il famoso detto popolare, forse derivato da un’antica saggezza contadina, secondo cui chi è morto è “passato a miglior vita”.
Per quanto riguarda la liturgia, l’usanza di celebrare messe in suffragio dei defunti ha origini antiche, fu Papa Benedetto XV (1914-1922) durante la Prima Guerra Mondiale, a estendere a tutta la Chiesa il privilegio di celebrare tre messe il 2 novembre, una consuetudine già presente in alcuni Paesi come la Spagna e il Portogallo. Questa decisione fu presa in un momento storico particolarmente doloroso, con milioni di morti causate dalla guerra, allo scopo di offrire un maggior numero di preghiere per il riposo delle anime dei defunti.
Allora in questo giorno e non solo, visitiamo le tombe di chi ci ha preceduto: portiamo un fiore, recitiamo una preghiera, raccogliamoci in silenzio per qualche istante. Ma soprattutto pensiamo al loro essere più profondo che non è nelle tombe. Esso continua a vivere in una dimensione a noi ancora sconosciuta, in attesa di un mondo risorto.