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Cento anni fa Pio XI spianava la strada a Wojtyla

Dopo di lui la Polonia non fu più la stessa, il ponte con Roma era aperto e mezzo secolo dopo vi si incamminerà Karol Wojtyla verso il Soglio di Pietro. Lunedì l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, sarà a Varsavia per celebrare il centenario della consacrazione episcopale di Achille Ratti. La solenne messa sarà presieduta nella cattedrale di san Giovanni Battista, alle ore 19 dall’arcivescovo metropolita il cardinale Kazimierz Nycz e dal nunzio apostolico, l’arcivescovo Salvatore Pennacchio. Il prete ambrosiano, Achille Ratti, nato a Desio nel 1857, che diventerà prima arcivescovo di Milano e poi papa con il nome di Pio XI, fu elevato al rango di arcivescovo da papa Benedetto XV all’età di 62 anni (il 28 ottobre 1919) dopo essere stato nominato nunzio apostolico in Polonia. La sua profonda fede in Gesù, “pietra d’angolo per ogni costruzione ben ordinata”, avviò una storia nuova per la Polonia e i suoi rapporti con la Santa Sede.  Quattro mesi fa il Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Edgar Peña Parra alla nunziatura apostolica di Varsavia ha inaugurato la statua di Achille Ratti, il primo nunzio apostolico nella Seconda Repubblica Polacca e il mosaico intitolato “Crocifissione e gloria dei santi” realizzato nella cappella della nunziatura per celebrare il centenario del ripristino dei rapporti diplomatici tra la Polonia e la Santa Sede. “Sono onorato di potere inaugurare la statua di Achille Ratti e per felice coincidenza, lo facciamo esattamente nel centenario della sua nomina all’incarico di rappresentante pontificio – ha detto il Sostituto -. Con questo gesto, vogliamo ravvivare la memoria sia della persona del grande diplomatico, futuro Papa Pio XI, sia della data così significativa nella storia dei rapporti tra la Santa Sede e la Polonia”. In effetti, fu provvidenziale la decisione del Papa Benedetto XV di nominare monsignor Ratti, già nell’aprile dell’anno 1918, visitatore apostolico per la Polonia.

Divisioni ideologiche

“Così egli avrebbe potuto conoscere da vicino il drammatico scenario dell’Europa Orientale, ancora devastata dalla Prima Guerra Mondiale – puntualizza l’arcivescovo Edgar Peña Parra- Avrebbe potuto percepire la grande sete di libertà e l’impegno del popolo polacco, fondato sull’amore per la patria e sui valori spirituali tramandati di generazione in generazione insieme alla tradizione religiosa cristiana. Forse questa esperienza fu fonte della grande simpatia con cui accompagnò la rinascita dello Stato Polacco dopo più di centoventi anni di spartizioni e occupazioni da parte delle nazioni confinanti”. Alla premura personale di monsignor Ratti si deve l’accelerazione del processo di riconoscimento formale della Seconda Repubblica Polacca da parte della Santa Sede, di cui espressione evidente ed effettiva fu la sua nomina a nunzio apostolico. “Malgrado diverse difficoltà legate alla complessa situazione politica, le divisioni ideologiche e sociali, le tendenze anticlericali del governo socialista, il nunzio godeva di stima come attento osservatore, pronto a segnalare le preoccupazioni e richiamare la classe politica alla prudenza in diverse questioni, come assiduo mediatore e amichevole accompagnatore della Chiesa in Polonia e di tutta la nazione – precisa il Sostituto -. L’amicizia per il popolo polacco e il rispetto per i suoi valori spirituali li portò nel cuore anche quando divenne Papa, fino a darne espressione adornando la cappella nel palazzo di Castel Gandolfo con i due affreschi di Jan Rosen, pittore polacco di origini ebraiche, rappresentanti la difesa di Jasna Góra e il Miracolo sulla Vistola”. Quindi “nel centenario dell’allacciamento dei rapporti diplomatici tra la Santa Sede e la Polonia, ci auguriamo che l’esempio di Achille Ratti costituisca una costante ispirazione per le nostre presenti e future relazioni, affinché possa sempre unirci una solida amicizia, impegnata a promuovere il bene comune e a trasmettere alle future generazioni la fede, l’amore e la speranza”.

Uno studioso con fiuto diplomatico

Primo nunzio apostolico nella Seconda Repubblica Polacca, l’allora monsignor Ratti rivelò, in effetti, doti da gran diplomatico, scrivendo una fondamentale pagina nella storia dei rapporti tra la Santa Sede e la Polonia, anche se il suo era, fino ad allora, un curriculum da studioso, incluse la carica di Prefetto della Biblioteca Ambrosiana, ricoperto dal 1907 e a quella di prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, che guidò dal ’14.  Ma già si poteva intuire la sua capacità nel contesto diplomatico: nel giugno 1891 e nel 1893 fu invitato a partecipare ad alcune missioni, al seguito di monsignor Giacomo Radini-Tedeschi in Austria e in Francia. Sarà nel dopoguerra che un “uomo venuto da molto” cambierà la storia del mondo a partire proprio dalla Polonia. “Appena eletto Papa, Giovanni Paolo II aveva pensato subito a un viaggio in Polonia- spiega il decano dei vaticanisti Gianfranco Svidercoschi, ex vicedirettore dell’Osservatore Roma, collaboratore e amico di Karol Wojtyla -. Almeno una volta, anche se fosse stata l’ultima, avrebbe voluto rivedere la sua patria, ritornare nella sua Cracovia, risentire il profumo della sua terra. Ma, nel momento stesso in cui aveva cominciato a pensarci, Giovanni Paolo II si era reso immediatamente conto che la cosa sarebbe stata molto molto difficile. Il fatto che dal Conclave fosse uscito un Papa polacco – e proprio Wojtyla! – aveva mandato fuori di testa i capi comunisti, e per primo il Cremlino. “Quell’uomo porterà solo guai!”, continuava a ripetere il presidente sovietico Leonid Brežnev. E lo diceva sapendo che “quell’uomo” conosceva il marxismo dal di dentro, conosceva il suo impianto ideologico, i suoi meccanismi  e anche i suoi punti deboli, quindi sapeva come attaccarlo.

Un atto contro l’uomo

“Proprio per questo, nei primi tempi, Giovanni Paolo II aveva mantenuto un profilo basso, cercando di evitare interventi critici, polemici. Aveva confermato l’Ostpolitik, e monsignor Agostino Casaroli alla sua guida, ma con un cambio di strategia: e cioé, vincolando l’azione diplomatica, e quindi i rapporti con i Paesi comunisti, al rispetto dei diritti umani, in modo da privilegiare il dialogo con i popoli, con le nazioni, anziché con gli Stati- sottolinea Svidercoschi-.E’ poi, andato (primo viaggio) in Messico, che era ufficialmente anticlericale, e con un governo e un parlamento pieni zeppi di massoni, il Papa confidava che le autorità comuniste polacche non avrebbero potuto dirgli di no. Ma era Mosca che continuava a mettere i bastoni tra le ruote”. Brežnev era arrivato a proporre una alternativa incredibile: “Dite al Papa, un uomo saggio, che potrebbe dichiarare pubblicamente di non essere in grado di venire a causa di una indisposizione”. La proposta, evidenzia Svidercoschi. era talmente assurda, se non ridicola, che il governo di Varsavia aveva avuto buon gioco nel vincere le resistenze del Cremlino. Anche perché aveva chiesto, e ottenuto dal Vaticano, di spostare la data del viaggio il più lontano possibile dalle celebrazioni del IX centenario del martirio di san Stanislao: ucciso da un re tiranno per difendere il popolo e, perciò, personaggio scomodo, essendo andato contro lo Stato, per la storiografia marxista, e per un regime che si sentiva sul collo il fiato del Grande Fratello. “Era il 2 giugno del 1979, quando il Papa polacco arrivo a Varsavia. Il primo Papa che metteva piede in un Paese comunista- ricorda Svidercoschi-. La definizione migliore, e passata alla storia, fu quella del cardinale Franz Konig, arcivescovo di Vienna: un vero e proprio terremoto”. Dieci minuti di applausi. Giovanni Paolo II celebrò la prima messa in piazza della Vittoria, dove di solito si svolgevano le principali manifestazioni del regime. “L’esclusione di Cristo dalla storia dell’uomo – disse nell’omelia – e un atto contro l’uomo. Senza di Lui non e possibile capire la storia della Polonia”. Parole mai sentite prima, pubblicamente, in un Paese dell’Est. E infatti, dalla folla, scoppio un applauso che duro più di dieci minuti. Il giorno dopo, altro discorso-bomba a Gniezno. Non solo il Papa fece parlare per la prima volta la “Chiesa del silenzio”, ridando voce alle lingue e ai popoli slavi; ma rilancio l’unita spirituale dell’Europa sulle comuni radici cristiane. Opponendosi cosi a quella che ormai tutti, anche in Occidente, ritenevano una situazione definitiva, irreversibile: la divisione del continente. “Infine, la sua Cracovia. La messa nella grandiosa spianata di Błonia, quasi due milioni di persone- afferma Svidercoschi-C’era li, visibile, il significato profondo di un viaggio che aveva ridato al popolo polacco, e ai popoli degli altri Paesi dell’Est, la voglia di sentirsi liberi, di essere liberi. Al momento di salire sull’aereo, per far ritorno a Roma, Giovanni Paolo II ne invento un’altra delle sue, perché stampo due baci sulle gote del sorpresissimo e imbarazzatissimo Henryk Jabłoński, presidente del Consiglio di Stato polacco. Un gesto che faceva seguito alla frase, estremamente significativa, inserita all’ultimo momento nel discorso di poco prima. “Questo evento senza precedenti è indubbiamente un atto di coraggio da ambedue le parti”. Ma ancora di più, pensando al futuro. “Bisogna avere il coraggio di camminare nella direzione nella quale nessuno ha camminato finora”.

Senza cambiamenti traumatici

Secondo Svidercoschi, papa Wojtyla non voleva, e forse neppure si augurava, dei cambiamenti traumatici. In quel momento, forse, pensava ancora possibile un’evoluzione del comunismo nella linea della Primavera di Dubček, e cioe di un socialismo dal volto umano, e di un progressivo abbattimento della “cortina di ferro”. E proprio per questo, nel discorso di congedo a Cracovia, volle incoraggiare i governanti polacchi (e, indirettamente, anche gli altri governanti dell’Est)  perché prendessero in considerazione quanto di positivo, di costruttivo, era emerso da quel viaggio. “Ma i capi comunisti non capirono nulla di quanto stava accadendo, non strinsero quella mano tesa – ricostruisce Svidercoschi -. Mosca, anzi, intensificò la sua “campagna” contro il Papa polacco”. Cinque mesi dopo, tutti i componenti la segreteria del Comitato centrale del Pcus (tra i quali anche il futuro leader, Gorbaciov) approvarono un documento dell’ideologo del partito, Michail Suslov, dal titolo che era tutto un programma: “Decisione di operare contro le politiche del Vaticano nelle relazioni con gli Stati socialisti”. Tra l’altro, si prevedeva l’infiltrazione di spie all’interno della Santa Sede. E in effetti, qualche tempo dopo, una spia (un diacono) venne scoperta in Vaticano e allontanata. Con la conseguente adozione di misure e cautele più severe, specialmente nell’appartamento pontificio. Per contro, si profilava una grave minaccia per l’Urss.

Così nacque Solidarność

Si respirava un’aria nuova in Polonia, dopo la visita del Papa. Forse perché era finita la paura e la gente aveva rialzato la testa, ma il dissenso si era fatto più spavaldo, e il mondo operaio aveva cominciato a criticare apertamente una ideologia e uno Stato-partito, dai quali non si sentiva più rappresentato. Insomma, si avvertiva una diffusa volontà di ripresa morale e sociale, che inevitabilmente cozzava con un “sistema” ormai prigioniero dei suoi metodi autoritari: la forza, l’intimidazione, gli arresti, le condanne. E si arrivò al 1° luglio del 1980. “In seguito a un nuovo aumento dei prezzi, alcuni reparti delle officine Ursus presso Varsavia sospesero il lavoro- sostiene Svidercoschi-.Da lì, gli scioperi si allargarono a macchia d’olio, attraversarono l’intero Paese. Ce ne fu uno anche nei cantieri Lenin di Danzica, per il siluramento “politico” di Anna Walentynowicz, una gruista, vent’anni di anzianita, e militante del movimento operaio”. A organizzare la protesta fu Lech Wałęsa, un elettricista, che era uno dei membri più attivi del sindacato clandestino. E qui, sul Baltico, la contestazione non solo mise radici, e assunse un carattere permanente, ma si coloro di un aspetto inedito. Straordinariamente inedito. “Sui cancelli dei cantieri apparvero un quadro della Madonna Nera e un ritratto di Karol Wojtyla – rievoca Svidercoschi -. Gli operai, in ginocchio sul selciato, si confessavano e prendevano la comunione”. Quelle immagini fecero il giro del mondo, impressionarono tutti. “Forse è arrivato il momento!”, esclamo Giovanni Paolo II. E, naturalmente, quelle immagini vennero viste anche al Cremlino, spaventarono i gerarchi comunisti, timorosi che il “bubbone” polacco potesse espandersi, contagiare le altre regioni dell’impero. Cosi, quando si arrivo alla trattativa fra operai e governo, Mosca infuriata mando a dire alle autorità polacche: “Firmate! Firmate! Ma fatela piantare con queste agitazioni!”.

La radice polacca

Ebbene, sarebbe avvenuto tutto questo, se in quel momento sulla cattedra di Pietro non ci fosse stato un Papa polacco? E dunque, non fu proprio questo grande “ombrello” protettivo, a bloccare quanti avrebbero voluto soffocare la rivoluzione che stava incendiando la Polonia? Venne siglato l’accordo a Stettino il 30 agosto, e il giorno dopo a Danzica, il “protocollo” che prevedeva l’accettazione di “sindacati indipendenti autonomi” e la garanzia del diritto di sciopero, la libertà sindacale ma anche la libertà religiosa. “Nasceva Solidarność, il primo sindacato libero nell’Est europeo – sottolinea Svidercoschi -. E marcato da una profonda dimensione etica, perché si ispirava alla dignità dell’uomo, alla sua libertà, e a una concezione del lavoro che, nel segno di una nuova solidarietà, andava al di là delle vecchie contrapposizioni ideologiche e politiche”. Motivi che poi affioreranno di nuovo nelle encicliche Laborem Exercens (sul superamento della “questione sociale”, fondata sulla nozione di classe) e Centesimus Annus (sull’“incontro” tra Chiesa e movimento operaio). Si capi subito, comunque, che il mondo comunista non avrebbe sopportato a lungo quella “mina vagante”. Troppo pericolosa, Solidarność! Troppo destabilizzante! La sua stessa esistenza era un attacco al cuore del marxismo, della sua ideologia. “E infatti, già nell’autunno del 1980 cominciarono a circolare voci minacciose – ricostruisce Svidercoschi -. I servizi segreti occidentali parlavano addirittura di una possibile invasione della Polonia, da parte delle truppe dell’Armata Rossa, qualora si fosse acuito lo scontro tra il governo di Varsavia e Solidarność, guidata da Wałęsa. Giovanni Paolo II sentì il dovere di intervenire, in difesa della nazione polacca ma anche, più in generale, in difesa della libertà dei popoli di decidere del proprio destino”. Cosi, il 16 dicembre, compi un gesto incredibile quanto coraggioso.

Scatole cinesi

Giovanni Paolo II scrisse a Brežnev, presidente dell’Urss, manifestandogli “la preoccupazione dell’Europa e del mondo per la tensione creata dagli eventi interni che si sono verificati in Polonia negli ultimi mesi”. Il tono della lettera era molto formale e lo stile quello usato in diplomazia; ma c’era una durezza di fondo che non poteva non colpire. A cominciare da quell’esplicito riferimento all’“aggressione” hitleriana del 1939, e che, implicitamente, voleva ricordare come la Polonia, nello stesso periodo, fosse stata invasa a Est dall’esercito sovietico. Secondo riferimento, quello alla tragedia della Polonia, e al sacrificio di tanti suoi figli, durante la Seconda guerra mondiale; e poi, il richiamo all’Atto finale di Helsinki, alla responsabilità di ogni nazione nei propri affari “interni”. E alla fine: “Confido che voglia fare tutto ciò che e in suo potere per dissipare l’attuale tensione”. Quella lettera, evidenzia Svidercoschi, non ebbe mai una risposta. A Mosca avevano deciso: Solidarność doveva sparire; e questo non si poteva certo anticiparlo al Papa polacco. Ma se non ci fu nessuna risposta scritta, qualcun altro si incarico di “rispondere”, seppure in altro modo: non per conto di Brežnev, questo no, ma di ambienti che, passando attraverso una lunga serie di scatole cinesi, erano collegabili ai servizi segreti sovietici. Era il 13 maggio del 1981. Piazza san Pietro, cuore della cristianità. Quasi non si sentirono quei due colpi sparati contro Karol Wojtyla.

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