C'è una doppia faccia nell'immigrazione. Quella della sofferenza e quella dell'accoglienza. Sua Eminenza, il cardinale Michael Czerny, lo sa molto bene. Nato a Brno, in Cecoslovacchia, all'età di due anni si trasferì con la famiglia in Canada: erano gli anni direttamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, quando nel Paese termini come “pulizia etnica” rappresentavano il sussulto di un nazionalismo esasperato. Essere migranti, allora come oggi, era una sofferenza, eppure per il cardinale è divenuto parte di un'identità, tanto quanto lo è per un credente il cammino stesso della vita. Sarà per questo che, creato cardinale nel Concistoro dello scorso ottobre, il prelato ha scelto una croce pettorale modellata sui resti di una barca utilizzata dai migranti in una delle drammatiche traversate nel Mediterraneo: uomini in cerca di “speranza” che rappresentano, nelle loro sofferenze, il corpo mistico di Cristo: conficcato nel legno della croce, rosso come il sangue versato da Cristo, un chiodo ricorda la ferita inflitta a Dio quando si sceglie l'indifferenza. È per fronteggiare la minaccia, sempre più invadente, di quella che Papa Francesco chiama “cultura dello scarto”, che il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale s'impegna perché di speranza si possa vivere e non morire. Una sfida che la Chiesa sta facendo ogni giorno sempre più propria.
Eminenza, può riassumere, secondo una sua personale riflessione, l'attività svolta nella Sezione Migranti e Rifugiati?
“Dal 1 gennaio 2017, dalla nascita del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, è stata costituita la Sezione Migranti e Rifugiati sotto la guida diretta del Santo Padre. Da subito, ci siamo impegnati per risponde alla volontà del Papa di assistere le Conferenze Episcopali e le chiese locali nello sviluppo di risposte pastorali adeguate alle questioni inerenti migranti, rifugiati e vittime della tratta. Dopo una prima fase di ascolto, durante la quale abbiamo incontrato le diverse realtà ecclesiali impegnate nell’accompagnamento di queste categorie di fratelli e sorelle, abbiamo cominciato a lavorare con loro collaborando anche allo sviluppo di programmi efficaci e mirati alla cura dei più vulnerabili. Insieme, sempre sotto l'attenta guida del Santo Padre, abbiamo declinato i quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere, integrare in importanti documenti volti alla promozione di una migrazione sicura e a una comune e decisa lotta alla tratta di persone. La Sezione Migranti e Rifugiati assiste le conferenze episcopali, i vescovi, i fedeli, il clero, le organizzazioni cattoliche, le congregazioni religiose e tutti coloro che sono impegnati ad accompagnare chi decide di partire in ogni fase del suo spostamento, dalla partenza al transito, dall’attesa all'integrazione, fino alla fase del ritorno di chi sceglie di rientrare. Come spesso sollecitato dal Santo Padre, l'impegno è costante anche nella promozione della cultura dell'incontro, in contrapposizione alla cultura dell'indifferenza e dello scarto, come profonda opportunità per essere Chiesa e accogliere Cristo quando afferma “ero straniero e mi avete accolto”. I lavori in Sezione proseguono a ritmo serrato, l'accompagnamento diretto alle Chiese locali è continuo, cerchiamo di offrire loro strumenti utili a pianificare e valutare risposte efficaci verso migranti, richiedenti asilo, sfollati e vittime di tratta”.
Com'è approdato, nel suo percorso umano e spirituale, ad occuparsi di migranti? C'è un episodio a cui è legato?
“Nella mia vita ho sempre vissuto in prima persona la realtà migratoria. Io stesso sono figlio di migranti. Sono nato a Brno, in quella che era la Cecoslovacchia e la mia famiglia ha dovuto lasciare il Paese perché in pericolo. Sono cresciuto con la consapevolezza di aver abbandonato la mia patria per cercare una vita più sicura in Canada, dove poi sono cresciuto. Quindi, già da piccolo ho sperimentato sulla mia pelle la sofferenza e le difficoltà dei migranti ma, allo stesso tempo, anche la bellezza dell'accoglienza, come quella dimostrataci da una famiglia canadese che, spontaneamente, si è presa cura di noi e ci ha permesso di integrarci e cominciare una vita dignitosa e al sicuro. Successivamente, anche la mia famiglia ha accolto in casa persone in difficoltà e rifugiati. Da allora la mia vita, come cristiano prima e come sacerdote in seguito, è stata spesa nell'impegno della promozione della tutela dei diritti dei più vulnerabili. Quando sono stato chiamato dal Santo Padre per ricoprire il ruolo di Sotto-Segretario nella Sezione Migranti e Rifugiati ho subito accettato con entusiasmo questa nuova sfida proprio perché ho potuto rendere ancor più tangibile il mio impegno personale verso i nostri fratelli e sorelle più bisognosi”.
La croce pettorale di S.E. Card. Michael Czerny realizzata dall'artista italiano Domenico Pellegrino – Foto © Paul Haring
Nel suo stemma cardinalizio ha scelto una barca con delle figure. Cosa rappresenta per lei quella barca?
“La barca rappresenta il mezzo di trasporto tipicamente utilizzato da chi parte in cerca di una vita migliore ma allo stesso tempo è anche un'allegoria della Chiesa, la Barca di Pietro, che ha ricevuto dal Signore l'incarico di 'ospitare il forestiero'. Le quattro figure sulla barca rappresentano una famiglia di quattro persone, una famiglia di profughi come una delle tante che si imbarcano per approdare in porti sicuri. Ma anche una famiglia particolare, come la mia. Anche noi eravamo in quattro quando, nel 1948, ci siamo imbarcati dalla Cecoslovacchia per raggiungere il Canada in cerca di sicurezza. Anche l'acqua in argento e azzurro che si vede sotto la barca simboleggia l'Oceano Atlantico che in quel viaggio io e la mia famiglia abbiamo dovuto attraversare”.
Nel recente discorso agli Ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, Papa Francesco ha ricordato – rifacendosi al Novecento – la duplicità degli anni Venti, dalla crisi alla fecondità. C'è un riflesso anche oggi della medesima duplicità?
“Nello stesso discorso agli Ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, Papa Francesco ha parlato di speranza, una parola che, ha detto, 'per i cristiani è una virtù fondamentale'. Con questi occhi, occhi di cristiani, dobbiamo guardare alle molte crisi in atto. Come Chiesa non possiamo guardare a un singolo Paese ma dobbiamo ampliare lo sguardo fino ai confini del mondo. Così facendo, ci rendiamo conto di quante situazioni di crisi ci siano ancora. Dobbiamo imparare dalla storia, il dialogo ha sempre rappresentato lo strumento più efficace per risolvere i conflitti. Perché la fecondità sia l'ultima parola della crisi, è necessario guardare in faccia alla realtà, chiamare i problemi con il loro nome, come ha sottolineato il Santo Padre, e impegnarci a tutti i livelli nella condivisione e nel dialogo. Così si apriranno orizzonti di pace. Lo stesso Papa Francesco ha dichiarato di aver visto, durante alcuni dei suoi viaggi apostolici, segni di pace e di riconciliazione là dove le difficoltà sembravano aver preso il sopravvento . Questo mi fa credere ancor di più che non ci dobbiamo abbattere e che ogni crisi porta in sé una potenziale fecondità”.
La recente esortazione apostolica Querida Amazonia è un documento capitale non solo per la Chiesa, ma per la società tutta. Come ritiene l'impegno sociale della Chiesa oggi?
“L'Esortazione si concentra sull'area amazzonica ma tutto ciò che vi è scritto è declinabile in modo differenziato a ogni realtà: la vita della Chiesa, l'economia, la politica, la tutela dell'ambiente, tutto è connesso e tutto può trovare il suo spazio all'interno del Documento. I quattro “sogni” di Papa Francesco citati dell'Esortazione non sono solo “sogni amazzonici” ma sono obiettivi cristiani per una generale tutela della persona e della casa comune. La lotta per i diritti degli ultimi, la difesa delle ricchezze culturali, la custodia del creato, comunità cristiane incarnate nella realtà, sono le fondamenta di una società sana e là dove non sono garantite è necessario il cambiamento. La Chiesa deve sempre essere presente e accompagnare questo processo, deve ascoltare e accompagnare. L'ascolto, innanzitutto, è necessario per poter agire e il discernimento sulle giuste vie da percorrere è fondamentale. Inoltre, l'accompagnamento è indispensabile; la Chiesa non deve mai venir meno alla sua dimensione pastorale e missionaria. Nell'Esortazione, il Santo Padre sottolinea come la cura delle persone e degli ecosistemi siano inseparabili e la Chiesa deve dare il proprio contributo per questo, sia in Amazzonia come in ogni angolo della Terra. Deve essere Lei stessa promotrice di vie concrete per un'ecologia umana che tenga conto degli ultimi, dei poveri, della valorizzazione delle culture e della casa comune. Il messaggio sociale insito nel Documento include anche la responsabilità della Chiesa nell'annuncio del Vangelo, l'annuncio di un Dio che ama ogni essere umano, in ogni parte del mondo, tanto da sacrificare il Suo stesso Figlio”.
Qual è il suo pensiero in merito all'impegno istituzionale dei migranti? C'è ancora tanto da fare?
“Ci sarà tanto da fare finchè ci sarà anche solo una persona che deve lasciare il proprio Paese per trovare la sicurezza e assicurarsi la dignitá umana. C'è tanto da fare per garantire a ogni essere umano la libertà di scegliere dove vivere. C'è tanto da fare per offrire sicurezza e accoglienza a chi deve spostarsi dalla propria terra; bisogna lavorare molto per tutelare migranti e rifugiati e i loro diritti. C'è tanto da fare per implementare i quattro verbi di Papa Francesco per proteggere, promuovere, accogliere e integrare chi arriva da lontano in una nuova comunità; si deve vincere la diffidenza e scoprire la ricchezza della cultura dell'incontro. Ma devo sottolineare che tanto è già stato fatto. Sono moltissimi gli esempi di accoglienza e integrazione di cui hanno beneficiato tanto migranti e rifugiati quanto le comunità che li hanno accolti. Sono molte le persone che, ad oggi, si sono spese per garantire una vita dignitosa ai più vulnerabili e come Chiesa vediamo in questo la realizzazione del Regno di Dio”.
Lo scudo cardinalizio di S.E. Card. Michael Czerny. Nella parte alta il simbolo della Compagnia di Gesù, cui appartiene. Nella parte inferiore, una barca con una famiglia di quattro persone, che simboleggia i profughi – Foto © Gentile concessione dell'autore