Il primo pellegrinaggio di Giovanni Paolo II in Polonia (40 anni fa) riveste ancora oggi un significato speciale e un valore storico formidabili. Il discorso pronunciato a Varsavia da Karol Wojtyla costituì uno choc epocale che mutò la storia e gli procurò invincibili inimicizie, persino dentro il mondo cattolico
Ad aver paura ancora oggi di Giovanni Paolo II sono innanzi tutto coloro che, già durante il suo pontificato, ne criticavano più o meno esplicitamente una caratteristica assolutamente “scandalosa” e inaccettabile in certi ambienti ecclesiastici. E cioè l’assenza di clericalismo. A ben vedere i rilievi mossi a Karol Wojtyla, da destra e da sinistra, hanno in comune l’avversione per la sua attitudine a trattare tutti alla stessa maniera: laici e sacerdoti, uomini e donne. Ciò derivava in primo luogo da un percorso formativo obbligatoriamente “insolito”. Nella Polonia occupata nel 1939 dai nazisti, fu costretto a frequentare il seminario in clandestinità mentre lavorava nella fabbrica chimica Solvay. I colleghi operai durante le ore di lavoro lo vedevano pregare e leggere i libri che si portava dietro di nascosto. Esprimevano la simpatia e l’affetto per il futuro sacerdote risparmiandogli i lavori più pesanti per permettergli di studiare. La conseguenza di una mancata formazione “istituzionalizzata” comportò che per tutta la vita Karol Wojtyla non ebbe mai posture o atteggiamenti clericali. L’abitudine a vivere fra la gente, fuori dal “recinto sacro”, plasmarono il suo modo di rapportarsi al prossimo stupirono fino alla fine gli ambienti nei quali bisogna comportarsi da prete più che esserlo. Da qui gli attacchi ai suoi “mea culpa” nel mondo della cultura cattolica e i mormorii sotto traccia nella Curia vaticana. La storica decisione di chiedere perdono per le colpe della Chiesa non piacque agli stessi filoni ecclesiastici che avevano mal digerito le aperture pastorali del Concilio in nome di una fraintesa idea di Tradizione. La stessa rapidità dell’elevazione di Karol Wojtyla agli onori degli altari risente, oltreché primariamente dalla evidenza di una santità chiaramente visibile già in vita, della volontà di non esporlo al colpo di coda postumo di una galassia clericale che lo aveva contrastato fin dalla sua elezione al Soglio di Pietro. Sono passati trent’anni dalla caduta del muro di Berlino e ne sono passati quattordici dalla scomparsa di Giovanni Paolo II, il Papa che con la sua storia personale e il suo indiscutibile carisma ha incrociato, spesso sovrapponendovisi, le molte luci e le altrettante ombre del secolo breve. E allora una chiave di lettura interessante per ricordare questi sei lustri che ci separano dalla fine della Guerra Fredda è proprio quella di ripercorrerli attraverso l’azione del Pontefice polacco, la cui influenza si è allungata sul mondo, non più diviso in due ma in mille nuovi bellicosissimi fronti, ben oltre la morte. Aveva ragione Mikhail Gorbaciov, l’ultimo e definitivo leader sovietico, quando affermava che: “Senza Karol Wojtyla non si capisce ciò che è accaduto in Europa alla fine del ventesimo secolo”?
Nei primi giorni di aprile 2005, mentre i potenti della terra si mettevano in fila per l’ultimo saluto all’ex operaio degli stabilimenti di soda Solvay asceso al trono di Pietro, le migliori penne dell’epoca si cimentavano nell’impresa titanica di riassumere in pochi paragrafi la Storia che lungi dall’essere finita alla Porta di Brandeburgo, come aveva vaticinato Fukuyama, si era invece rimessa a correre al galoppo già due anni dopo nei Balcani. Fu il Papa che gettò le basi di un nuovo umanesimo e costruì sentieri prima inimmaginabili per il dialogo tra le Chiese e le religioni oppure fu il Papa del ritorno a una dottrina ultra-conservatrice che fece rimpiangere e non solo ai laici gli anni del predecessore Paolo VI, il “liberale” erede del messaggio aperturista di Giovanni XXIII? Giovanni Paolo II riuscì ad essere “un ponte” per la capacità che aveva di vivere la propria fede come testimonianza. Testimone di Dio, della sua verità, del suo ingresso nella storia umana.
Contro il silenzio pavido
Di fatto l’esistenza stessa del Papa polacco ha assunto la forma e la forza della testimonianza. Non aveva neppure vent’anni all’inizio della Seconda guerra mondiale e si era trovato a vivere sulla propria pelle lo “scellerato patto” Ribbentrop-Molotov: fuggito da Cracovia con il padre per scappare dai nazisti dovette tornare indietro perché da Est avanzavano le truppe sovietiche. Aveva lavorato in una cava di marmo, era scampato alla deportazione in un campo di concentramento, aveva deciso di prendere i voti. E, da ministro di Dio, aveva conosciuto da dentro i due spietati totalitarismi: il nazismo prima, con i lager, la Shoah, la scomparsa di tanti amici ebrei, e poi il comunismo, con l’ateismo di Stato, il regime di terrore, l’oppressione. Lui stesso, dopo l’elezione al Soglio di Pietro, avrebbe così spiegato il peso dell’esperienza novecentesca nella propria educazione sentimentale. “È facile capire la mia sensibilità per la dignità di ogni persona umana e per il rispetto dei suoi diritti, a partire dal diritto alla vita”. Molti contemporanei però, non sarebbero partiti esattamente dal diritto alla vita per difendere la dignità umana. E non perdonarono mai al Pontefice quell’appello a non abortire rivolto alle donne bosniache stuprate dai miliziani serbi in nome della pulizia etnica che dal 1991 aveva preso a insanguinare i Balcani con una guerra civile a cui pure, secondo la lettura di parecchi analisti geopolitici, Giovanni Paolo II aveva in qualche modo indirettamente contribuito riconoscendo per primo l’indipendenza della cattolica Croazia dalla ex Jugoslavia titina sin dall’Angelus del 1991 e il pronunciamento sulle “legittime aspirazioni del popolo croato”. Poi certo, il Papa fu anche tra i pionieri dell’appello alla riconciliazione quando nel 1994 parlò a Zagabria di perdono e convivenza anticipando quanto di fatto sarebbe accaduto dieci anni dopo. Ma quel «prima la vita» segnò in modo indelebile le coscienze occidentali insieme alla notizia delle tante suore a loro volta incinta dei nemici arrivati da Belgrado. Né, alcuni anni dopo, passò inosservata la cerimonia di beatificazione di Alojzije Stepinac, il controverso arcivescovo croato considerato da alcuni un collaborazionista del regime ustascia di Ante Palevic e da altri un martire della dittatura comunista jugoslava. Apologeti e detrattori concordano comunque sul fatto che Karol Wojtyla sia stato e resti un’icona del Novecento, del suo debutto funesto e del promettente epilogo anticipato dalla dissoluzione della galassia sovietica. Un uomo di movimento più ancora che d’azione. Negli oltre cento viaggi internazionali compiuti durante il suo mandato va ricercata la sintesi compiuta di parola e presenza fisica.
L’osservatorio da cui partiva era universale, gli permetteva di conoscere meglio il dilagare delle povertà, le ingiustizie, le violenze. Pur partendo da una dimensione spirituale ed evangelica, Giovanni Paolo II denunciò, spesso con parole terribili e invocazioni all’intervento divino, la condizione disumana in cui vivevano interi popoli. Lui solo, di fronte al silenzio pavido dei Grandi della terra, a testimoniare la speranza in un futuro potenzialmente diverso. “Tutto può cambiare”, diceva spesso, convinto che l’uomo potesse mutare il corso degli eventi. Sarebbe perciò storicamente falso restringere l’opera di cambiamento che Wojtyla riuscì a realizzare alla caduta del Muro di Berlino. In realtà fu la sua prima visita in Polonia da Papa a segnare il passo del secolo scorso. Era il 1979 e ad attenderlo in piazza della Vittoria, a Varsavia, c’erano un milione di persone mute sotto una gigantesca croce eretta per l’occasione: nessun Paese comunista aveva mai assistito a nulla di simile. E lì davvero il Pontefice ebbe un’influenza determinante nell’incoraggiare la nuova (santa) alleanza tra operai e intellettuali intorno al sindacato Solidarnosc. La Polonia di oggi è in parte figlia di quel cambio di stagione anche se, col senno di poi, molti avrebbero sperato in un esito differente e le donne, in particolare, le tante che nei mesi scorsi hanno manifestato in abiti neri contro le politiche conservatrici e paternaliste del governo in carica, denunciano con l’arretratezza del dibattito su temi come l’aborto l’eredità di quel peccato originale che vide la croce guidare la spallata finale al tramonto del sol dell’avvenire fino ad evitare il rischio del bagno di sangue ma anche fino ad accaparrarsi l’egemonia culturale a venire. Né, in fondo, avrebbe potuto essere differente l’approccio alla questione femminile di un Pontefice che si sarebbe sempre schierato contro l’ordinamento ecclesiale delle donne e contro quella chiesa “riformata” di cui erano esempio “le suore radical-femministe americane”.
La profezia di un mondo globalizzato
Luci ed ombre insomma, nel senso più profondo dell’espressione. Amici e detrattori. È indubbio infatti che Giovanni Paolo II ebbe un peso geopolitico di rilievo: lo ebbe nel processo di democratizzazione dell’America Latina sin dalle visite nel Paraguay del dittatore Alfredo Stroessner e a Cuba (entrambe con chiari appelli alle libertà negate), nel rivendicare il diritto dei Paesi africani ormai indipendenti ad una crescita economica e culturale (anche se non va dimenticato il suo impegno contro la contraccezione in un continente decimato dall’Aids), nell’accendere i riflettori su un’Asia dominata dal gigante cinese e nel sostenere, là dove la Chiesa era libera di agire, la missione dei vescovi a favore della giustizia e del cambiamento sociale. Di fatto un Papa per certi versi “no global”, le cui parole contro la povertà circolavano non a caso negli ambienti cattolici del multiforme popolo di Genova 2001. Fu Giovanni Paolo II il primo a denunciare come la scomparsa del marxismo non dovesse significare la vittoria del sistema capitalistico e che, a muro di Berlino caduto, fu proprio contro l’ideologia liberista che il Papa rivolse gli strali più duri del suo insegnamento sociale. L’impronta di quella spinta al superamento del materialismo storico senza cedere al materialismo consumistico fu forte in Polonia, ma si allargò in cerchi concentrici ad ampio raggio. Il risultato è netto sul piano storico ma molto meno su quello culturale, dove l’accento sul rispetto della dignità umana non fa matematicamente rima con progressismo. Anzi. Né, ad onor del vero, il Papa polacco mascherò mai le sue posizioni tradizionaliste in contrapposizione alle pulsioni libertarie della Chiesa “catto-comunista” post ’68. A questo proposito qualcuno ricorderà un controverso articolo firmato sul Guardian dal critico letterario Terry Eagleton in cui all’indomani della morte di Wojtyla si associava il conservatorismo morale del Papa, eletto nel 1978, alle politiche economiche reazionarie della contemporanea ascesa delle destre mondiali, da Ronald Reagan alla Thatcher. La Storia sarebbe stata sicuramente diversa se Alì Agca avesse ucciso Giovani Paolo II. A fermarlo è stata invece l’implacabilità del male mentre il nuovo Millennio gettava già sull’occidente e sul mondo le prime luci sinistre di un futuro meno radioso di quanto la fine del comunismo avesse fatto sperare. “Come si comporterebbe oggi Papa Wojtyla con il patron del partito ultraconservatore Diritto e Giustizia, Jarosław Aleksander Kaczynski”, si chiedono i polacchi che a migliaia sono scesi in piazza a gennaio per manifestare contro l’assassinio del sindaco liberal di Danzica Pawel Adamowicz, la cui morte viene inquadrata nel clima di contrapposizione rabbiosa e di odio maturato negli ultimi anni nel Paese? La risposta è sepolta con il Novecento. Quel che non è sepolto, invece, è il senso di incomprensione che continua a circondare il pontificato di Karol Wojtyla.
L’eredità di un Pontefice guerriero
Ad aver paura dell’eredità di Giovanni Paolo II non sono solo i cattolici tradizionalisti. Inquadrare Karol Wojtyla nelle sue battaglie a difesa della vita e della famiglia aiuta a capire perché oggi quel pontificato venga messo da molti frettolosamente da parte. Karol Wojtyla, infatti, fu uno strenuo oppositore della modernità tecnocratica che non vuole solo interpretare l’uomo, ma decidere su di esso e trasformarlo. Il magistero di Giovanni Paolo II camminava su due gambe: una pastorale, l’altra geopolitica. Entrambe hanno trovato sulla loro strada sgambetti, calci, ostacoli. Lo sa bene il suo successore che l’ha canonizzato. L'”eredità spirituale” di Giovanni Paolo II, in particolare il suo impegno per “rinnovare la terra polacca” e il suo insegnamento sulla Divina Misericordia, “non sia dimenticata”, ha detto papa Francesco il 22 ottobre 2014, salutando i pellegrini polacchi alla udienza generale .”Oggi – ha ricordato papa Bergoglio – celebriamo la memoria liturgica di San Giovanni Paolo II, il quale ha invitato tutti ad aprire le porte a Cristo“. “La sua eredità spirituale non sia dimenticata, – ha aggiunto – ma ci spinga alla riflessione e al concreto agire per il bene della Chiesa, della famiglia e della società”. Papa Francesco ha ricordato che fu durante “la sua prima visita” in Polonia, lo storico viaggio che manifestò a tutti l'azione di Karol Wojtyla a sostegno della libertà dei polacchi, che Giovanni Paolo II “ha ricordato a tutto il mondo il mistero della divina misericordia e ha invocato lo Spirito Santo, perché scendesse a rinnovare la terra”. A spiegare perché il lascito di Karol Wojtyla sia tanto pesante e anche scomodo è Sergio Paronetto, vicepresidente di Pax Christi. “Un’eredità difficile quella di Giovanni Paolo II – afferma-. Il suo pontificato, notano alcuni studiosi, è di difficile lettura. Anzi, ha presentato elementi contraddittori rivelando le antinomie più ampie di tutta la Chiesa, anche se Giovanni Paolo II, a mio parere, si è collocato più avanti della statica sintesi di tensioni contrapposte”. Insomma, “ha patito la classica solitudine del profeta ed è stato frenato dal peso di una tradizione pigra e distratta, poco attenta alla novità dei “segni dei tempi”, per questo faceva spesso appello ai giovani, al loro coraggio responsabile (voi non vi rassegnerete), alla loro intuizione creatrice (sentinelle del mattino), alla loro capacità di speranza (la pace è possibile)”. Secondo Paronetto attorno a lui ancora oggi c’è troppa retorica clericale e un esagerato devozionismo, che tendono a nascondere la sostanza della sua opera. “Temo un certo trionfalismo atto a mascherare il senso di colpa o la passività davanti alla sua voce inascoltata e a ridurre la profondità innovatrice del suo messaggio- osserva-. La sua eredità si colloca nell’intreccio tra le 90 richieste di perdono per l’uso cattolico-cristiano della violenza nella difesa della verità (compresi i famosi “mai più” del Giubileo del 2000); i gesti solenni e amichevoli verso ebrei e musulmani; gli incontri delle religioni ad Assisi (nel 1986 e nel 2002) che hanno sancito il definitivo ritiro di ogni possibile avallo religioso alle guerre e l’impossibilità di qualunque forma di crociata armata; l’attenzione ai movimenti per i diritti umani e al popolo della pace, compreso quello della marcia Perugia-Assisi del 12 ottobre 2003; i 27 messaggi per le Giornate Mondiali della Pace del primo gennaio di ogni anno (soprattutto gli ultimi 9); encicliche come la Sollicitudo rei socialis (1987) e la Centesimus annus (1991)”. E ancora “la vibrante opposizione alle guerre del Golfo e all’invasione dell’Iraq; il rifiuto dell’unilateralismo egemonico e del “pensiero unico” dopo il crollo del Muro di Berlino; il perenne invito ad abbattere ogni muro e a costruire ponti; l’argomentare problematico accompagnato dal costante duplice grido: “Mai più la guerra-la pace è possibile”. Alcuni hanno osservato un ritorno al passato, quasi un rilancio della teoria della “guerra giusta” in occasione delle vicende balcaniche”. Può darsi, secondo Paronetto, che “come Capo dello Stato del Vaticano il Papa abbia dovuto scontare il peso di argomentazioni diplomatiche generiche o ambivalenti. Può darsi che sia stato un errore il rapido riconoscimento (tra il 1991 e il 1992) della Croazia, della Slovenia e della Bosnia, ma è indubbio che si è prodotta una cattura mediatica (a scopi militari) dell’espressione “ingerenza umanitaria”, identificata subito con l’orribile ossimoro della guerra umanitaria”.
La testimonianza di don Tonino Bello
Paronetto preferisce valorizzare Wojtyla come testimone del Vangelo e guida dei credenti. Su quegli anni lascia la parola a Tonino Bello, testimone autorevole di una tragedia che lo ha visto marciare, nonostante il male che lo stava divorando, fino a Sarajevo. In un’intervista del 1992, alle domande sul “dovere di ingerenza”, don Tonino osservava: “Giovanni Paolo II non ha chiesto l’intervento armato. Ha chiesto l’intervento. Ha gridato, cioè, contro la vergognosa latitanza dell’Europa e del mondo che assistono al massacro nei Balcani. Non si può rimanere spettatori neutrali, e neppure semplicemente tifosi. Bisogna separare i contendenti. Ma non con la violenza delle armi. Il Papa non ha mai tirato fuori dal cassetto dei suoi appunti il fantasma della “guerra giusta”, che egli stesso aveva autorevolmente contribuito a cancellare per sempre dalle pagine della teologia morale. Nelle sue parole c’è da leggere l’indignazione di chi, nella guerra del Golfo, ha visto lo “zelo” interessato dei potenti, ansiosi di bruciare sul tempo il pro-forma delle trafile negoziali, e scalpitanti di attuare al più presto l’opzione militare. Nell’iniziativa del Papa c’è la protesta del profeta. Egli denuncia ancora una volta l’ipocrisia nascosta sotto certi fraseggi dello scorso anno (come quello del ristabilimento dell’ordine internazionale violato), tesi più alla tutela del petroldollari che alla difesa dei diritti umani”. Don Tonino Bello apprezzava in Giovanni Paolo II “le sue formulazioni coraggiose contro la guerra, che sono entrate nel prontuario di un inequivocabile magistero di pace”.