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2020, centenario di Wojtyla “profeta di carità”

Il 2020 è un anno carico di significati per i milioni di devoti di San Giovanni Paolo II. Si festeggiano, infatti, i cento anni dalla nascita di Karol Wojtyla e i 15 anni dalla sua morte. La conferenza episcopale polacca ha un denso programma di eventi e celebrazioni, In terris ha intervistato sul tema il decano dei vaticanisti ed ex direttore dell'Osservatore Romano Gianfranco Svidercoschi, amico e collaboratore del Pontefice canonizzato dal suo successore Jorge Mario Bergoglio.

E' vero che anche Karol Wojtyla aveva pensato di dimettersi, come farà poi Benedetto XVI?

“Prima ancora di compiere gli ottant’anni, aveva chiesto agli esperti se fosse stato il caso, in quelle condizioni, di dare le dimissioni; e, dopo la risposta negativa (comunque aveva predisposto ugualmente tutto, nel caso ce ne fosse stato bisogno), decise di fronte a Dio di proseguire la sua missione, almeno fino a quando ne avrebbe avuto le forze. Così, aveva continuato ad assolvere i suoi impegni, senza mai far pesare la sua malattia, le sue sofferenze, sulla Curia, sulla Chiesa universale. Resistette fin quando poté. Per la prima volta, non ce la fece a partecipare alla Via Crucis al Colosseo. A Pasqua, si affacciò alla finestra dello studio, ma non riuscì a pronunciare la benedizione. Sentendo avvicinarsi la fine, volle congedarsi da tutti i suoi collaboratori, e anche da Francesco, l’uomo che curava la pulizia nell’appartamento pontificio. Il 2 maggio del 2005 era un sabato. Wojtyla sussurrò a suor Tobiana: “Lasciatemi andare dal Signore”. Poi, il suo cuore si fermò. E, già qui, c’era una prima eredità che Giovanni Paolo II lasciava: da uomo, prima che da Papa. E cioè, lui che era stato acclamato come “John Paul Superstar”, come “il Papa globetrotter”, vigoroso, atletico, osannato in tutto il mondo, e ora invece era un povero vecchio impedito di camminare, impedito di parlare, ebbene, voleva ricordare – a una società ossessionata dal vitalismo, dall’efficientismo, dalla sublimazione del corpo – come si possano vivere le diverse stagioni della vita con dignità, con serenità. E, soprattutto, come si possa affrontare con coraggio anche una prova così sconvolgente, così “definitiva”, come la morte”.

Lei è stato vicino al San Giovanni Paolo II per tutto il pontificato, cosa ricorda del giorno della sua morte?

“Quel 2 maggio era la vigilia della festività della Divina Misericordia. Difficile pensare che fosse stata solo una “coincidenza”. Era stato lui, Giovanni Paolo II, a riscoprire e rilanciare quello che è uno degli attributi centrali di Dio e del suo amore senza confini. Era stato lui, a istituire quella festa. Era stato lui, a dedicare alla Misericordia il suo miglior documento, la lettera apostolica Dives in Misericordia; e dove c’era, in controluce, il senso profondo della sua vita e del suo progetto di rinnovamento della Chiesa. Molto in sintesi, la Dives in Misericordia era un invito alla Chiesa molto diretto, molto esigente. Un invito, non solo a professare la misericordia di Dio, non solo a immetterla nella vita dei fedeli; ma anche, se la Chiesa vuole essere veramente specchio fedele di Cristo, tornare a mostrarsi più misericordiosa, più pronta al perdono: “… non le è lecito, a nessun patto, di ripiegarsi su se stessa. La ragione del suo essere è, infatti, quella di rivelare Dio”. In questo consiste un altro dei contenuti più significativi dell’eredità lasciata da Giovanni Paolo II: e cioè, la testimonianza che, con la sua vita, ha dato della fede in cui credeva. Come dire che la sua vita diventò essa stessa testimonianza: proclamava la presenza di Dio nella storia umana, e, nello stesso tempo, vivendo visibilmente questa fede, la rendeva parte integrante dell’esistenza umana. Si potrebbe dire, senza trionfalismi, che Karol Wojtyla sia stato il Papa dell’Incarnazione, ossia il Papa che ci ha fatto vedere il volto umano di Dio. Con la sua fede, con la sua missione, con il suo impegno per la difesa di ogni persona, e ancora, con la santità che ha segnato costantemente la sua esistenza, con il coraggio e la serenità con cui aveva affrontato tante prove, l’attentato, le malattie e infine la morte, Karol Wojtyla ci ha mostrato come fare una nuova esperienza di Dio, il Dio dell’amore, della misericordia, della tolleranza”.

Qual è lezione più “umana” del Magistero di Wojtyla?

“E' la testimonianza che Wojtyla ha dato e cioè quella di una nuova spiritualità, ossia di un nuovo modo di intendere la vita cristiana. Che è l’incontro con “qualcuno” che ti cambia completamente l’esistenza; e, dunque, non è solo dottrina, non è soltanto un insieme di leggi, e tanto meno un moralismo fine a se stesso, solo divieti, solo pesi che sono oltretutto inutili. E, dalla nuova prospettiva spirituale, discendeva conseguentemente quello che si potrebbe definire un nuovo “stile di vita” per i seguaci del Vangelo. E cioè, un nuovo modo di essere cristiani oggi, di come vivere la fede nell’esperienza di tutti i giorni. Una fede vissuta come scelta personale, matura, e continuamente rinnovata, rafforzata, e soprattutto testimoniata. Testimoniata apertamente, con convinzione, senza complessi e paure. E, proprio per questo, capace di trasformare la realtà umana e sociale, di generare speranza. Insomma, la fede come capacità di esprimere la radicalità evangelica e la stessa santità, in quanto misura “alta” della vita, nelle situazioni più normali, più comuni. Nel segno della Trinità E adesso, l’eredità più complessa, più discussa, ma anche oggettivamente più grandiosa, che Giovanni Paolo II ci ha donato: un progetto di Chiesa che lui stesso ha vissuto personalmente e realizzato; ma che, dopo la sua morte, non ha avuto ancora quello sviluppo che ci si aspettava. Per prima cosa, nessuno potrà certo negare che la Chiesa lasciata da papa Wojtyla – pur nella assoluta continuità con i suoi predecessori – appaia molto diversa e comunque molto cambiata, fortemente cambiata, rispetto a quella che il 16 ottobre del 1978 gli era stata affidata”.

Qual è stata la sua missione? 

“Giovanni Paolo II ha traghettato il cattolicesimo, da una ancora complessa crisi postconciliare, a una nuova evangelizzazione, a una più incisiva presenza nella storia, e a una proiezione universale mai prima conosciuta. Plasmando così una immagine di Chiesa profondamente rinnovata, sia nella linea di un progressivo sviluppo delle indicazioni del Concilio Vaticano II, sia in risposta alle nuove esigenze emerse dalla comunità cattolica e, più in generale, dall’umanità. Fin dai tempi di Cracovia, Wojtyla aveva maturato una sua visione di Chiesa: una ecclesiologia decisamente cristocentrica, dalla quale poi lui faceva discendere la sua concezione dell’uomo, la centralità della persona umana. Diventato Papa, questa visione rispuntò nelle prime tre encicliche, il trittico trinitario, che caratterizzò la stessa preparazione del Giubileo del 2000. La Trinità, dunque, come chiave interpretativa per comprendere la fede, lo specifico dell’essere cristiano; ma che rappresenta anche la realtà della Chiesa, la sua natura, la sua missione. Un insieme di unità e molteplicità, di identità e diversità. Come dire, anche una maggiore diversità nell’essere Chiesa. La “nuova” Chiesa Vediamo i tratti essenziali di questa Chiesa. Per cominciare, una Chiesa riconciliata, che ha fatto i conti con se stessa, con il suo passato, con le colpe che ne gravavano la storia, ne offuscavano il volto. E, questo, grazie soprattutto alla grande esperienza del Giubileo, che le ha permesso di varcare la soglia del terzo millennio pentita e purificata. Una Chiesa più spirituale, più evangelica, più biblica, perché centrata sul primato della parola di Dio. E, quindi, della vita interiore, della santità: una santità finalmente “aperta” a tutti, e non più monopolio di alcune categorie, di alcuni gruppi. Una Chiesa che non è più una monarchia assoluta, come poteva apparire fino a qualche tempo fa. Meno burocratica, e, in prospettiva, più sinodale, come nell’Oriente”.

Che tipo di Chiesa ha lasciato dopo più di un quarto di secolo di regno?

“Una Chiesa meno clericale e con un maggiore spazio per i cristiani laici, e in particolar modo (malgrado la misoginia ancora così diffusa tra i chierici) per il “genio” femminile. Una Chiesa non più dominata, rispetto a un tempo, dal moralismo. E intanto – specialmente dopo la straordinaria catechesi di Wojtyla sulla teologia del corpo – cominciava a delinearsi una proposta morale, non più caricata di divieti, di cose-da-non-fare, ma fondata sul disegno di salvezza di Dio Padre – un Padre esigente ma anche misericordioso – e tendente alla maturazione della coscienza del credente. Una Chiesa non solo realmente mondiale, ma espressione di una felice sintesi tra universalità e inculturazione. Con il progressivo spostamento del suo baricentro verso l’America Latina, l’Africa, l’Asia. Ma dove, proprio per la sua azione a favore della gente più povera, più oppressa, la missione evangelizzatrice viene purtroppo segnata da un nuovo martirio. Come agli inizi del cristianesimo. E ancora. Una Chiesa impegnata a fondo nel movimento ecumenico. Con un grande sviluppo delle relazioni con le altre Chiese cristiane e con le altre religioni. Anche se, per l’islam, ci sono grossi ostacoli a causa dell’espandersi del fondamentalismo islamico. Una Chiesa che non teme le sfide della modernità. Ormai conosce bene il senso della vera laicità, dei confini tra ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare. E se rivendica la propria identità e una presenza nella vita civile, non per questo aspira a un ritorno alla societas christiana, a un nuovo integralismo religioso. Una Chiesa incarnata nella storia, e che si è affrancata definitivamente da ogni connivenza, da ogni compromesso con sistemi politico-economici, con ideologie. Così, adesso, può testimoniare credibilmente l’esperienza cristiana nelle diverse società. Può scendere in campo e combattere la sua “battaglia” in difesa dei diritti umani, a partire dal diritto alla vita. Una Chiesa che è immagine più trasparente e convincente dell’amore di Dio, della sua misericordia, e quindi di una fede più dentro la quotidianità della vita umana. Una Chiesa più vicina agli uomini e ai problemi degli uomini; e più coraggiosamente impegnata nella costruzione della pace, della giustizia, nel segno della solidarietà, e di una autentica “famiglia” di popoli e di nazioni”.

Sono stati più i successi o i fallimenti?

“il suo non era un progetto chiuso, definitivo, né tantomeno un modello da imporre comunque e dappertutto. Giovanni Paolo II concepiva la Chiesa come frutto di ciò che lo Spirito le dice, e che, attraverso i carismi, suggerisce alle singole persone, ai gruppi, alle comunità. In altre parole, la Chiesa è espressione della fede del popolo, dell’insieme di esperienze, anche le più diverse tra di loro, anche apparentemente contraddittorie, ma che concorrono tutte a diffondere la parola di Dio, a instaurare il suo “regno”. Ad esempio, fu papa Wojtyla a dare una poderosa spallata a quella che una volta aveva criticato come «l’antica unilateralità clericale»; ma fu poi la “realtà” profonda del cattolicesimo, sotto l’azione dello Spirito, a emergere alla superficie, a imporre nuovi protagonisti – i giovani, i movimenti, le donne – e nuove vie – il passaggio da una Chiesa gerarchica, clericale, a una Chiesa più comunitaria, più laicale, più popolo di Dio. Ma va anche ricordato che, questo progetto di Chiesa, si imbatté in forti resistenze, subì ritardi e addirittura correzioni di “rotta”, e, in genere, andò incontro a molte incomprensioni. E non sempre a causa di una vera e propria opposizione, ma anche, non di rado, per “pigrizia”, per timore delle novità. Fu quanto accadde, con diverse intensità, sia nella Curia romana, sia in non poche diocesi, e perfino in numerose parrocchie. Dove spesso – per la persistenza di un autoritarismo clericale, quello del parroco-padrone – i laici continuavano a essere esclusi da qualsiasi responsabilità. Ma già Giovanni Paolo II, per primo, aveva messo in conto tutto questo. Sapeva bene come le rivoluzioni, specialmente quelle spirituali, avessero bisogno di tempi lunghi, prima di riuscire a entrare nelle coscienze e, più ancora, nelle strutture. Infatti, il Papa non si preoccupò più di tanto, quando venne a sapere dell’esistenza di un “fronte del no”. A lui importava seminare, e cioè che, nell’humus profondo del cattolicesimo, si depositasse questa immagine di una Chiesa rinnovata”.

Era uno statista, come dicono molti?

“Più che un uomo di governo, Wojtyla si sentiva fondamentalmente un pastore, un vescovo, e non era ossessionato dal fare-per-fare, o dal vederne subito i risultati. “L’altro mi appartiene” E allora, più che a governare, a Giovanni Paolo II interessava andare alla sostanza della fede, della missione della Chiesa: che è vivere il Vangelo, e far incontrare l’uomo con Dio. È vivere il Vangelo, e rispettare la dignità dell’“altro”, degli “altri”, qualunque sia il colore della pelle, l’origine razziale, il credo religioso, l’appartenenza politica, ideologica. «L’altro mi appartiene», aveva scritto Wojtyla in un suo documento. Anche qui, c’è sicuramente una “parte” della eredità che Giovanni Paolo II ci ha lasciato. Una eredità che è “dono” ma anche “compito”, e perciò andrebbe fatta fruttificare più largamente, più profondamente di quanto si sia realizzato finora. Aiutando in particolare i credenti a riscoprire gli insegnamenti di papa Wojtyla, e a declinarli nella loro vita, quella religiosa anzitutto, ma anche quella immersa nella società, nella realtà di tutti i giorni. E comunque, che il patrimonio umano e spirituale di san Giovanni Paolo II non andrà, non potrà andare perduto, l’ha “mostrato” visibilmente quella immensa folla che, dopo i giorni della morte e del funerale, cominciò a visitare la sua tomba, nelle grotte vaticane; e, in dimensioni ovviamente ridotte, continua ancora oggi ad andare a trovarlo. Una straordinaria varietà di volti, di esperienze, di emozioni, di sentimenti, di situazioni. E un dialogo che ha dell’incredibile. Dialogo di cuori, di anime. Dialogo pieno di storie. Pieno del mistero di Dio. Pieno di vita. Una fede che finalmente è vita. E un Papa che, grazie al suo popolo, non muore. Continua a vivere”.

 

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