Silvia Romano è a casa. E questo è l’importante. Lo ha detto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, invitando a rispettare l’intimità che, dopo la grande mediaticità del suo ritorno a casa, è ora necessaria alla giovane cooperante milanese per tornare alla sua vita, com’era prima del rapimento. Un evento drammatico che, in qualche modo, ha sconvolto l’esistenza stessa della giovane, tornata a casa dopo 18 mesi di prigionia durante i quali ha maturato una nuova fede, presentandosi al ritorno in Italia con indosso l’abito tipico delle donne somale e affermando serenamente di aver scelto liberamente di convertirsi alla religione islamica.
L’ondata
Il ritorno a casa di Silvia non è bastato. Non sembra esser riuscito a diventare più forte del dibattito via social, in cui nemmeno stavolta il senso di sollievo ha soppiantato il desiderio di dire la propria in modo decisamente poco ortodosso. La scelta di Silvia ha scatenato critiche sui social, in modo anche feroce, tanto che, secondo quanto si apprende, la Prefettura starebbe valutando se disporre o meno una protezione di fronte casa della giovane, dove dovrà trascorrere il periodo di quarantena preventiva. Le pattuglie rimaste in strada, proprio davanti all’abitazione, starebbero attendendo proprio di sapere se procedere o meno con la sorveglianza.
E’ una storia già vista. La macchina dell’hate speech che si mette in moto senza che sia possibile arginarla. Un dispiacere non solo perché influisce negativamente sulla gioia di una famiglia che ha finalmente riabbracciato sua figlia, ma anche per la dimostrazione, ancora una volta, che la tastiera può trasformarsi in uno strumento inaspettato di divisione. Al di là della legittimità dei propri pensieri personali.