Il 1970 è l’anno che molti sociologi definiscono l’inizio della postmodernità. La data che diede avvio ai più intensi fenomeni di speculazione, corsa al profitto, consumo ed estrazione di materie prime e varie tipologie di risorse. E da quel momento ad oggi, secondo uno studio del Wwf dal nome “Living Planet Report 2014”, le popolazioni di pesci, uccelli, mammiferi, anfibi e rettili sul Pianeta sono diminuite del 52%. L’indagine mette in evidenza quali siano le più rilevanti minacce alla biodiversità, vale a dire pesca, caccia e cambiamento climatico. Il rischio maggiore sembra essere la combinazione tra l’impatto della perdita degli habitat e il suo degrado. Dallo stesso report emerge che la domanda di risorse dell’umanità supera del 50% ciò che i sistemi naturali sono in grado di rigenerare.
“Stiamo tagliando legname più di rapidamente di quanto gli alberi riescano a ricrescere – incalza il rapporto – e pompiamo acqua dolce più velocemente di quanto le acque sotterranee riforniscano le fonti”. Per non parlare poi dell’estrazione della sabbia, che in continenti come Asia ed Africa sta facendo scomparire centinaia di spiagge e del rilascio di Co2, impiegato per il 40% solo dalla Cina, per il 15% dagli Stati Uniti e per il 10% dall’Ue. La situazione più grave, conclude lo studio, è quella europea: l’indicatore dell’impronta ecologica, infatti, mostra che tutti gli stati del Vecchio Continente vivono oltre i livelli di “un pianeta”, facendo pesantemente affidamento sulle risorse naturali di altri Paesi. La sopravvivenza, per l’uomo , rende necessario da sempre lo sfruttamento di caccia, pesca e prelievo di materie prime quali acqua, legno e sabbia. Ma tra il sopravvivere e il vivere, tra il produrre e il correre verso il profitto senza preoccuparsi di gettare un occhio sul mondo, inizia a porsi una linea di demarcazione troppo grande, troppo disastrosa per essere ignorata. Per “vivere alla grande” stiamo uccidendo il Pianeta. Senza accorgerci che del suo ecosistema, da sempre, facciamo parte anche noi.