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Via Fani, anniversario nel segno dell’unità nazionale

Il 16 marzo 1978 , con il rapimento del presidente della Dc Aldo Moro, l'Italia entrò in una delle sue epoche più buie. Le similitudini con l'emergenza sanitaria odierna

Il 16 marzo 1978 a via Fani quattro brigatisti spararono quasi 100 colpi in appena tre minuti, sterminando la scorta del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro. Morirono così 42 anni fa Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Raffaele Jozzino, Giuliano Rivera. Lo statista cattolico fu rapito e dopo 55 giorni di prigionia fu ucciso. Questo anniversario cade in piena emergenza coronavirus e molti osservatori hanno richiamato l’unità nazionale con cui negli anni di piombo le forze politiche riuscirono a compattarsi contro il terrorismo nell’interesse del Paese.

Strage efferata

“Sappiamo che il rapimento, la prigionia e il delitto non sono avvenuti come ci è stato raccontato in base ad una narrativa concordata tra terroristi e apparati dello Stato, allo scopo di “chiudere” gli anni di piombo e di far sopravvivere strutture di intelligence e personaggi pubblici (politici e giornalisti) che hanno giocato un ruolo nella storia – evidenzia la giornalista e scrittrice Maria Antonietta Calabrò a Letture.org -. La ricostruzione dei fatti sulla strage efferata della scorta in via Fani, la lunga prigionia dello statista democristiano e la sua sconvolgente morte, è stata insomma il frutto di un compromesso volto a formulare una “verità accettabile” sia per gli apparati dello Stato italiano, sia per gli stessi brigatisti”.

Negli occhi

Tutto questo, puntualizza Maria Antonietta Calabrò a Letture.org, “ha innescato un processo di rielaborazione, molto tortuoso ed ex post (durato oltre dieci anni, da quel tragico 1978 al 1990), su che cosa era veramente accaduto: il 1990 non è una data casuale, visto che nel 1989 è caduto il muro di Berlino”. E altri inquietanti scenari sono emersi dalla Commissione guidata da Fioroni: Moro guardò negli occhi chi gli sparava, non morì sul colpo, ma in modo atroce, dopo una lenta agonia. Il suo carceriere trovò rifugio da latitante in una palazzina dello Ior, la banca vaticana, e nello stesso complesso con certezza era stata allestita la sua prigione almeno per i primi dieci giorni.

Spionaggio

“L’operazione Moro avvenne grazie alla capacita militare della Rote Armee Fraktion tedesca e alle complicità dei gruppi palestinesi più estremisti, quelli controllati dalla Stasi, il servizio segreto della Germania Est. Nel libro c’è la prova che il rapimento Moro fu anche un’operazione di spionaggio, visto che transitarono alle Br e da esse all’Est documenti originali sui piani della struttura Gladio, lo Stay Behind italiano – precisa Calabrò a Letture.org -. Sono tre i capitoli del nostro libro in cui si approfondisce il ruolo della Chiesa, un ruolo in chiaro-scuro, in questa vicenda, in cui si staglia la figura di Paolo VI. Nel capitolo “In Excelsis”, si parla della scoperta della prima prigione di Moro, almeno all’inizio del sequestro”. Infatti, prosegue Calabrò, “per quanto questo possa sembrare incredibile, c’è una documentazione inoppugnabile che dimostra che la sua prima prigione è stata alla Balduina (un quartiere a nord della capitale), all’interno di uno dei palazzi di proprietà dello Ior, la cosiddetta banca vaticana, ora al centro di un processo per una ipotesi di peculato al momento della vendita, avvenuta trent’anni dopo”.

L’impegno di Paolo VI

Ci sono inoltre “le prove concrete che il carceriere di Moro, Prospero Gallinari, è tornato in questo stabile nell’autunno del 1978 dove si è rifugiato per diverse settimane in seguito alla scoperta del covo milanese di via Monte Nevoso, che lo costrinse ad abbandonare altri appartamenti delle Brigate Rosse di cui aveva la disponibilità. Un palazzo, quello dello Ior, considerato estremamente sicuro, quindi, per Gallinari”. Un altro capitolo, “La villa pontificia”, dà conto dell’impegno di Papa Montini per salvare l’amico Moro. È la prima volta che viene dimostrata quella che è stata definita la “trattativa vaticana” per salvare Moro. Ciò avvenne anche mediante la disponibilità al pagamento ai brigatisti di dieci miliardi delle vecchie lire, messe a disposizione da un imprenditore israeliano, che nel libro viene individuato con nome e cognome e come fosse il “buon samaritano” della parabola evangelica.

L’ultimo latitante

C’è da notare, poi, che “l’ultimo latitante condannato per il sequestro Moro è Alessio Casimirri, figlio del numero due della sala stampa della Santa Sede per un trentennio sotto tre pontefici: Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI (fino al 1972). Casimirri non ha mai fatto un giorno di prigione, nonostante sia stato condannato in via definitiva a 6 ergastoli”. E “dai primi anni 80 è riparato in Nicaragua, dove è rimasto indisturbato, grazie alla protezione dei sandinisti legati all’attuale presidente Daniel Ortega, protagonista in questi giorni della violenta repressione nel suo Paese, che tanto preoccupa Papa Francesco e l’episcopato nicaraguense”. A questo proposito, Calabrò ricorda a Letture.org che Papa Bergoglio ha dato una nuova spinta alle nuove indagini della Commissione Moro facendo testimoniare nel 2015 l’allora nunzio apostolico Antonello Mennini: “Perché, come scriviamo nel nostro libro, Papa Francesco ritiene che l’emergere della verità su alcuni fatti importanti della storia italiana possa contribuire alle riforme vaticane”.

Operazione Fritz

A impedire di giungere alla verità dei fatti nel caso Moro è probabilmente il fatto che per il codice penale italiano il reato di strage non si prescrive e alcuni protagonisti sono ancora vivi. Moro. Il caso non è chiuso. La verità non detta si intitola il libro edito da Lindau e scritto dalla giornalista Maria Antonietta Calabrò e da Giuseppe Fioroni, presidente della commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. “Tutto quello che la gente sa sul cosiddetto caso Moro, cioè sulla strage efferata della sua scorta in via Fani, la lunga prigionia dello statista democristiano e la sua sconvolgente morte, si basa in gran parte su una ricostruzione dei fatti frutto di un compromesso volto a formulare una “verità accettabile” sia per gli apparati dello Stato italiano, sia per gli stessi brigatisti – spiegano gli autori -. Tutto questo provocò un processo di rielaborazione, molto tortuoso ed ex post (durato oltre dieci anni, da quel tragico 1978 al 1990), su che cosa era veramente accaduto durante l’Operazione Fritz, il nome in codice dell’operazione Moro”. E ancora oggi, a ben guardare, noi non sappiamo tutta la verità sulla morte di Aldo Moro.

Documenti desecretati

“Le verità emerse dalla nuova Commissione d’inchiesta Moro 2 sono sconcertanti. Quattro anni di lavoro, migliaia di documenti desecretati degli archivi dei servizi segreti italiani, centinaia di nuove testimonianze, nuove prove della Polizia scientifica e dei Ris dei Carabinieri hanno rivelato molti nuovi, sorprendenti elementi- sottolineano Calabrò e Fioroni -. Qualche esempio. Moro guardò negli occhi chi gli sparava, non morì sul colpo, ma in modo atroce, dopo una lenta agonia. Il suo carceriere trovò rifugio da latitante in una palazzina dello Ior, la banca vaticana”. L’omicidio ben difficilmente è potuto avvenire nel box di via Montalcini 8, così com’era nel 1978. Almeno 2 terroristi della Rote Armee Fraktion potevano essere in via Fani.

Un abito su misura

“Fu un imprenditore israeliano che fornì i 10 miliardi del riscatto consegnati a Paolo VI – sottolineano gli autori -. Le fazioni palestinesi giocarono un pesante ruolo nella trattativa. Durante il sequestro passarono alle Br documenti top secret della Nato. Infine emerge uno scenario internazionale del delitto che i brigatisti hanno sempre negato. Purtroppo anche in molte rievocazioni in occasione dei quarant’anni del rapimento è stata riproposta la vecchia narrativa, messa a punto come un abito su misura. Allora, la sola “verità” dicibile, ma oggi del tutto insoddisfacente”.

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