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Suicidi, il tragico interruttore della sofferenza

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E'una tendenza difforme quella del suicidio, che colpisce categorie diverse di persone, senza badare troppo allo status sociale, al sesso e nemmeno all'età. E non è semplice affrontare un tema di per sé così complesso sulla base di dati statistici, i quali svolgono l'essenziale compito di tracciare un quadro numerico che sia indicativo del fenomeno ma, giocoforza, dietro il gesto più estremo che un essere umano possa commettere orbitano sfere emotive profonde, aspetti psicologici, sociali e familiari che rendono estremamente difficile sondare le motivazioni, ancor di più tentare di procedere a una categorizzazione. Si possono però distinguere le ragioni e, in questo senso, la recente crescita della casistica relativa ai suicidi nell'ambito delle Forze dell'ordine risulta indicativa: 255 dal 2014 al 2019, secondo i dati dell’Osservatorio nazionale suicidi Forze dell’Ordine (Onsfo), dei quali 57 solo nell'ultimo anno. Numeri allarmanti, tanto che il segretario provinciale del Siap, Pietro Di Lorenzo, ha parlato di “una strage silenziosa che si accanisce su un mondo lavorativo che opera quotidianamente all'interno di una società sempre più frenetica e arida di valori sociali che vede spesso nelle forze dell'ordine un riferimento istituzionale nel quale riporre aspettative oppure riversare frustrazioni personali”.

I dati

Ma il caso degli uomini in divisa è solo una delle troppe categorie sociali esposte al rischio di una deriva irreversibile verso l'estremo atto. L'annuario Istat ha reso noto che, in Italia, pur se complessivamente calati rispetto alla decade precedente, al 2016 i suicidi continuano a essere circa 10 al giorno, per un totale di 3.870. Uomini per la maggior parte (3.039 casi), con la fascia d'età più interessata compresa fra i 9,9 ogni 100 mila abitanti per persone superiori ai 65 anni. E non che i giovani ne siano esclusi: 1,3 per 100 mila abitanti sotto i 24 anni e 5,8 (stessa proporzione) fra i 25 e i 44 anni. Tendenza in calo ma indicata ancora come la seconda causa di mortalità fra i giovani. Nel loro caso subentra una sfera psicologica diversa da persone più grandi d'età, magari alle prese con problematiche di tipo economico o con l'insorgere di aspetti come l'isolamento. In tali casi, peraltro, quella del suicidio si affianca ad altre manifestazioni del disagio sociale, quali Sindrome di Diogene, barbonismo domestico o altre forme di alienazione, a volte precedenti al suicidio.

Un atto non deterministico

Va da sé che esistano contesti lavorativi che, più di altri, prestano il fianco a derive umorali che possono favorire un gesto come il suicidio. In questo senso, come spiegato a Interris.it dal sociologo Maurizio Fiasco, “ci sono delle categorie che in ragione dell'attività che le impegna possono avere un disagio tale e una sofferenza che fa da sfondo alla possibilità di suicidio. Il quale non è mai un atto deterministico: dato un complesso di situazioni e una biografia della persona può prodursi un effetto, senza nesso causale diretto. Ci sono quindi delle categorie che comportano delle condizioni che combinandosi con le biografie delle persone, un tratto che resta sempre, altrimenti saremmo una funzione statistica, possono favorire le spinte suicidarie in ragione delle attività che svolgono e delle condizioni in cui le svolgono”.

Due condizioni

Esistono sostanzialmente due condizioni che, se combinate, possono esporre al rischio del suicidio coloro che, abitualmente, sono abituati a confrontarsi con contesti lavorativi di particolare tensione emotiva: “La prima condizione – ha spiegato il professor Fiasco – è data dal contenuto del lavoro che si svolge: un mestiere che si pone ad esempio a contatto con la sofferenza, con i comportamenti eccessivi, devianti, forme di sofferenza estrema. Come i medici di reparti o strutture che si occupano di casi particolarmente gravi sia da un punto di vista medico che emotivo; una parte delle professioni di aiuto, tra le quali quella dell'agente di Polizia; il campo della Protezione civile, del Pronto soccorso o delle ambulanze”. In questo contesto, un ruolo estremamente significativo lo giocano le esperienze vissute: “Basti immaginare una persona che, negli ultimi mesi, abbia assistito a scene orripilanti, estraendo corpi dalle lamiere di un'auto dopo un incidente, intervenendo troppo tardi o troppo presto, commettendo un errore o non commettendolo ma sentendosi comunque responsabile. Si tratta di fattori di forte impatto emotivo sulla persona e dei quali l'organizzazione di cui essa fa parte deve farsi carico come progetto di gestione dell'attività”. Anche questo risulta un aspetto sostanziale: “Non è un aspetto accessorio: come si tiene conto della possibilità di contagio per un medico che esercita in un reparto di malattie infettive, così va capito come coloro che operano in ambienti delicati, ad alto stress e a contatto con la sofferenza, sono esposti al cosiddetto burn out, a una depressione, una forma di disperazione. A questo si aggiunge il contenitore comunitario: la combinazione di questi fattori minaccia la persona e la rende più vulnerabile, aumentando il rischio di una condotta che porti a rivolgere la sofferenza alla violenza contro di sé”. E non va dimenticato che “in queste categorie si verifica anche un alto tasso di conflittualità intrafamiliare, separazioni, divorzi. Si tratta di condizioni che vanno prese in esame con attenzione e spesso non lo si fa”.

Un maggiore sforzo

Esiste poi un secondo fattore, in un certo senso molto più prossimo: “Si tratta del ridotto tempo che separa la determinazione a compiere l'atto suicidario con il compimento stesso, ovvero la vicinanza con l'arma. Questa, proprio perché consente questa istantaneità fra decisione e messa in atto, non dà il tempo alle risorse psichiche della persona di allontanare l'esecuzione e far scemare la predisposizione suicidaria. La pistola è una sorta di interruttore. Se invece il tempo si allunga, più naturalmente la nostra costituzione umana agisce fino a far dissolvere il pensiero suicidario”. Anche per questo è necessario uno sforzo maggiore per cercare di offrire maggiori tutele a chi svolge il proprio lavoro “costantemente a contatto con il male, la sofferenza e spesso in condizione di isolamento”.

Damiano Mattana: