Le statistiche sulla presenza dei disabili nel mercato del lavoro italiano sono ormai fra le peggiori d’Europa. Secondo i dati più aggiornati – L’inclusione lavorativa delle persone con disabilità (dicembre 2019) – su 100 persone di 15-64 anni che, pur avendo limitazioni nelle funzioni motorie e/o sensoriali essenziali nella vita quotidiana oppure disturbi intellettivi o del comportamento, sono comunque abili al lavoro, solo 35,8 sono occupati. Di contro, per la stessa fascia d’età il tasso di occupazione delle persone senza disabilità è pari al 57,8%. Con uno spread, quindi, di 22 punti percentuali. Nell’insieme dei paesi europei (EU 28) la media delle persone con disabilità occupate era – nel 2017 –pari al 48,7% (Progress Report sull’attuazione della Strategia Europea sulla Disabilità). La situazione italiana è valutata molto criticamente dalle istituzioni europee[1].
Basterebbe questo dato – evidentemente ignorato o sottovalutato dalla classe politica italiana[2] – a segnalare a qualunque governante che il restringimento di questa forbice dovrebbe rientrate fra gli obiettivi da focalizzare nel Recovery Plan italiano.
Sono anche queste le cose che contribuiscono a creare la solidarietà e la convergenza fra i paesi UE e a dare corpo allo spirito comunitario. E infatti è la stessa UE ad avere assegnato – nel Quadro Finanziario Pluriennale – proprio alla voce “Coesione, Resilienza e Valori” la posta più alta: 1.099,7 mld su complessivi 1.824,4 (di cui 721,9 provenienti dal Next Generation EU: il Recovery Fund di cui tutti parlano.
Ma purtroppo, occorre constatare che il tema dell’occupazione delle persone disabili non viene neanche messo a fuoco in nessuno dei documenti preparatori del Recovery Plan italiano di cui si discute febbrilmente nelle stanze del potere in queste settimane.
La Missione 5 “Inclusione e Coesione” della nostra bozza di Piano prevede un’assegnazione consistente di risorse (27,6 mld). Parla di tutto e parla molto di “politiche attive del lavoro”, ma dimentica completamente il milione di persone con disabilità che – già oggi – sono in cerca di un lavoro, senza successo.
Ma il governo sa che nei prossimi mesi (con gli effetti economici della crisi COVID e la inevitabile cessazione della sospensione dei licenziamenti) questo numero crescerà velocemente? E soprattutto il Governo sa che le possibilità di trovare lavoro per queste persone è bassissima (quasi nulla, se la loro disabilità è di natura psichica o intellettiva) dal momento che non funzionano in alcun modo – da anni – i meccanismi istituzionali del “collocamento mirato”?
Il Recovery Plan era – ma siamo convinti che lo sia ancora – una grande occasione per far ripartire questo cantiere, che è fermo da troppo tempo.
Ciò che ha funzionato meglio, negli ultimi anni, sono le sperimentazioni e le iniziative in cui gli uffici pubblici (troppo poveri di competenze e oberati da adempimenti burocratici) hanno attivato partnership con cooperative e enti del Terzo Settore. Ma queste modalità quasi “spontanee”, prive di un centro, prive di meccanismi di trasmissione e diffusione delle buone pratiche, aggravano la situazione complessiva del Paese. Perché alla bassa performance generale (testimoniata dalle statistiche) aggiungono un gravissimo divario territoriale. Le sperimentazioni e le lodevoli iniziative di cooperazione pubblico-privato riguardano solo una parte limitata del territorio. Sempre più limitata, a causa degli effetti della prolungata crisi.
E così il sistema pubblico di collocamento mirato, lentamente affonda. Mentre la sfiducia delle famiglie interessate cresce.
Si può fare qualcosa
Il tema è così macroscopico che abbiamo fiducia che il Parlamento lo sollevi in occasione dell’annunciato esame del PNRR. Ci auguriamo che questo esame non sia un adempimento formale. E per contribuire a dare ai parlamentari elementi per intervenire, formuliamo una proposte concreta e molto semplice, sulla base della consapevolezza che:
- La stragrande maggioranza di quel milione di persone con disabilità sarebbero perfettamente in grado di svolgere attività lavorative utili allo sviluppo economico e sociale del Paese – se fossero adeguatamente formate, inserite nelle posizioni appropriate e “accompagnate” attraverso azioni dedicate e personale qualificato. Niente di diverso da ciò che comunemente si definisce “politica attiva del lavoro”.
- Gli uffici pubblici del collocamento mirato non hanno la possibilità di svolgere questi compiti se non delegando ad altri soggetti (esterni) pezzi delle loro competenze.
- Le attuali leggi consentono – ma fra mille difficoltà – questa delega, che avviene secondo una molteplicità di forme ma è sottoposta alle peculiarità dei tessuti economici locali e delle legislazioni regionali, dell’ordinamento dei vari uffici (gelosi della propria autonomia) e spesso si scontra con difficoltà di finanziamento. Il risultato finale: gran parte del territorio rimane completamente scoperto.
La nostra proposta
Introdurre, nel Recovery Plan una linea di finanziamento specifica (500 milioni dei 10 miliardi oggi assegnate alle Missioni/Componenti M5C2 ed M5C3) denominata semplicemente:
“Inserimento e accompagnamento lavorativo delle persone con disabilità”.
Questa linea di finanziamento deve avere un soggetto attuatore unico nazionale, Ministero del lavoro/ANPAL, cioè l’istituzione responsabile delle politiche attive per il lavoro e un Fondo disciplinato da un regolamento snello e valido sull’intero territorio del Paese che preveda criteri perequativi di assegnazione delle risorse.
I punti cardine di questo regolamento sono pochi:
- Per le persone con disabilità, normalmente, si hanno scarse possibilità di accedere al lavoro stabile se non attraverso un “progetto personalizzato” e un “inserimento mirato”. Cioè attraverso un processo di valutazione, formazione preparatoria al lavoro, orientamento, inserimento e accompagnamento. È quindi qui che bisogna investire!
- Ognuna delle fasi di questo processo necessita di figure esperte (di cui c’è carenza negli uffici pubblici, ma non nella società civile). Queste figure vanno cercate e aggregate al progetto oppure formate (laddove necessario). Su tutto il versante (indispensabile) della conoscenza delle varie forme di disabilità vi è una ricchissima stratificazione di conoscenza nel ricco tessuto associativo delle varie forme di disabilità.
- Il progetto deve quindi operare attraverso i soggetti che appartengono al Terzo Settore (associazioni, cooperative sociali, imprese sociali) secondo modelli che possono rapidamente essere definiti e standardizzati ai fini dell’ammissione al finanziamento, sulla base delle migliori pratiche già sperimentate, verificando la copertura di tutto il territorio nazionale.
- Il progetto deve caratterizzarsi per una forte sottolineatura del suo carattere sussidiario e della sua cogestione strutturale pubblico e privato no-profit. Senza la capacità di innescare questo processo e questo metodo – in forme flessibili ed evitando ogni burocratizzazione – non si riuscirà a far partire quella che ormai è una macchina drammaticamente ferma.
Ancora sono troppo pochi coloro che hanno compreso che se l’Italia non aprirà le sue istituzioni e i procedimenti delle sue amministrazioni al contributo della società civile, secondo metodi innovativi di sussidiarietà, la crisi sarà più forte di tutti i nostri sforzi.
Marino Bottà e Enrico Seta