Colpo al “mandamento” mafioso di S. Giuseppe Jato, guidato negli anni ’80 dal boss Giovanni Brusca. I carabinieri del nucleo investigativo di Palermo hanno eseguito dieci misure cautelari – 8 in carcere, una ai domiciliari e una di sospensione dal servizio – a San Giuseppe Jato e a San Cipirello, comuni palermitani.
I provvedimenti sono stati emessi dal gip del tribunale di Palermo nei confronti di 10 persone accusate di associazione mafiosa, estorsione aggravata dal metodo mafioso, cessione di sostanze stupefacenti e accesso abusivo al sistema informatico. Secondo gli investigatori, sei degli arrestati farebbero parte della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato.
Contatti dal carcere
Le indagini, che hanno preso il via nel 2017 e sono state coordinate dal procuratore aggiunto della Dda Salvatore De Luca, sono iniziate all’indomani degli arresti di Ignazio Bruno, capo del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato e del suo autista e consigliere Vincenzo Simonetti.
I due, mentre si trovavano in carcere, avrebbero mantenuto contatti con gli altri indagati, oggi destinatari del provvedimento cautelare, che avrebbero retto le fila della famiglia mafiosa in loro assenza. In particolare, riporta Ansa, i due avrebbero sarebbero stati in contatto con Calogero Alamia (nipote di Antonino Alamia, elemento di vertice della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato e già individuato come il ‘cassiere’ del clan, attualmente detenuto), e Maurizio Licari.
Gli arrestati sono accusati di avere esercitato il controllo del territorio attraverso le estorsioni e di essersi aggiudicati illegalmente gli appalti di opere realizzate sia nella valle dello Jato che a Palermo. L’organizzazione gestiva anche lo spaccio di hashish a Palermo, nei mandamenti mafiosi di Santa Maria del Gesù e Porta Nuova, e a San Giuseppe Jato.
Pizzo al centro scommesse
Tra le richieste di pizzo accertate dai carabinieri c’è quella a un centro scommesse a San Giuseppe Jato. In più circostanze, come ad esempio a Pasqua del 2017, il gestore avrebbe consegnato agli indagati Maurizio Licari, Giuseppe Antonio Bommarito e Nicusor Tinjala somme di denaro utilizzate poi dal clan sia per alimentare la ‘cassa’ della famiglia mafiosa che per sostenere le famiglie dei detenuti.
Secondo gli indagati, al vertice del mandamento c’era Calogero Alamia. Solo grazie al suo intervento e alla sua autorevolezza, nell’estate del 2018 è stato possibile ricomporre i gravi contrasti nati tra membri della famiglia mafiosa. Un’azione, quella da lui portata avanti, volta a mantenere l’unità per non compromettere il potere della cosca sul territorio.