Paglia a Interris.it: “La pandemia ha svelato le contraddizioni del sistema”

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La lezione della pandemia. “La salute è diventata appannaggio di saperi specialistici e assoggettata alle leggi del mercato che ha spinto sempre più verso una gestione sempre più elitaria della salute. Oggi vediamo i limiti di entrambi”, afferma a Interris.it l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita.

Pandemia

“La pandemia ha svelato le contraddizioni insite in un sistema, appunto, segnato da una “privatizzazione” o segmentizzazione della salute- osserva monsignor Paglia-. Gli scienziati (di fronte all’invasione del virus Covid-19 che abbatteva ogni frontiera) hanno dovuto constatare l’insufficienza delle loro scoperte, ci siamo dovuto accontentare dei vecchi metodi di distanziamento sociale, di mascherine e di lokdown”.

La pandemia ha evidenziato la necessità di ripensare stili di vita e impostazioni sociali. Perché a un certo punto della nostra storia si era smesso di pensare alla salute pubblica come a un bene primario della società?

“E’ ormai evidente che è urgente ripensare i sistemi sanitari entrati in affanno. Così pure creare un nuovo modello di sviluppo economico e di rapporto tra uomo e ambiente. In tale orizzonte si impone una visione della salute come un bene comune e bene pubblico. E, ovviamente, strumenti adeguati per tutelarla a livello planetario”.

Negli ultimi anni si è smesso di parlare di sussidiarietà o la si è resa una bandiera di parte. Qual è l’importanza nel Welfare delle reti territoriali e del privato sociale?

“Serve un nuovo equilibrio anche nell’organizzare il sistema sanitario. Anzitutto è indispensabile rivedere e migliorare la distribuzione delle risorse investite nella prevenzione delle malattie e quelle dedicate alla cura. Questo significa che non si può risolvere la sanità puntando solo sugli ospedali. Vanno attivate anche le reti territoriali sia per l’assistenza sia per la l’educazione sanitaria. La pandemia ci ha svelato che la salute di ciascuno è strettamente collegata alla salute di tutti. Quel che accade in una parte del mondo influisce su tutto il resto. Nel bene come nel male. Occorrono comportamenti responsabili non solo per tutelare il proprio benessere, ma anche quello degli altri”.

Papa Francesco ha chiesto più volte un ripensamento complessivo del modo di essere comunità. L’emergenza sanitaria ha accentuato la “cultura dello scarto”?

“L’emergenza suscitata dal Covid-19 – è chiaro per tutti, ormai – si sconfigge anzitutto con gli anticorpi della solidarietà. I mezzi tecnici e clinici del contenimento devono essere integrati da una vasta e profonda complicità con il bene comune che sarà effettivi se parte da coloro che sono più fragili e deboli. E’ necessario contrastare con decisione la tendenza a favorire fasce di privilegiati scartando di fatto coloro che sono più vulnerabili magari per cittadinanza, reddito o età”.

Altrimenti?

“In caso contrario, la dignità della persona andrebbe persa insieme alla preziosità dei suoi affetti. La “cultura dello scarto” ha prodotto migliaia di vittime tra gli anziani, in Italia e nel mondo. E vedremo gli effetti del lockdown sulla vita delle famiglie, sui bambini, sugli adolescenti. Questa crisi deve insegnarci a costruire un nuovo modello di società, fraterna e solidale”.

In alcuni paesi indigenti come il Perù le cliniche private e le assicurazioni chiedono fino a 15 mila per ricoverare un paziente affetto da covid-19. Lei ha detto che siamo tutti nella stessa tempesta, ma non tutti sulla stessa barca. La pandemia accresce le disuguaglianza?

“Sì, ho pensato di usare un’immagine diversa da quella di stare tutti nella stessa barca. In un certo senso è verissima. Ma se scendiamo più in basso ci rendiamo conto che piuttosto siamo tutti nella stessa tempesta, ma non sulla stessa barca, perché chi è più fragile è già affonda e tanti continuano ad affondare. Da questa pandemia dobbiamo cogliere l’occasione per cambiare l’assetto della società, dal versante economico a quello dell’educazione e quindi anche ad una società che sia davvero democratica, ossia che permetta a tutti l’accesso ai servizi di base e alle cure”.

Può farci un esempio?

“Nella prospettiva della Humana Communitas, come dice Papa Francesco nella Lettera inviata alla Pontificia Accademia per la Vita l’anno scorso, dobbiamo impegnarci a promuovere e difendere la vita umana dal concepimento alla morte naturale ma anche la qualità della vita degli uomini e delle donne e salvaguardare il pianeta. La fragilità è parte integrante della vita umana: siamo tutti fragili e mortali e, come abbiamo visto, in balìa degli eventi. Solo uniti costruiremo società fraterne e solidali che eliminano disuguaglianze insopportabili. Non si può speculare sulla salute”.

Come vanno ripensate le cure di prossimità? C’è bisogno di ricostruire un tessuto di corpi intermedi nel Welfare?

“Senza dubbio. E’ evidente che la malattia fa parte della vita umana. Ne svela la dimensione della fragilità. E non basta la sola dimensione tecno-scientifica – che ovviamente è indispensabile – ma, come ci ha mostrato la pandemia, è necessario un cambiamento di cultura che comporta il “prendersi cura gli uni degli altri”. E questo chiede un cambio culturale e spirituale. La stessa medicina contemporanea – a motivo del prevale della Tecnica – deve superare la tentazione prometeica di guarire ad ogni costo. Per cui quando non può più guarire dichiara il fallimento opera l’abbandono del malato inguaribile”.

Papa Francesco a Santa Marta – Foto © Vatican News

Qual è la soluzione?

E’ necessario tornare al cuore della medicina che è, appunto, “prendersi cura” del malato. E quando non è più guaribile è però sempre “curabile”, ossia da non abbandonare per nessun motivo, ma da accompagnare con amore. La malattia è anche una grande domanda di amore, di cura, di non abbandono. E’ perciò l’idea stessa di “cura” che va ripensata. Non è solo un intervento medico o sanitario in senso stretto. Lo ripeto: la cura vera è prendersi carico dei bisogni della persona”.

A cosa si riferisce?

“La malattia intacca le relazioni con se stessi e con gli altri, con le famiglie e la stessa società. Serve una visione ‘olistica’ della persona e uno sguardo profondo su tutti i bisogni del malato – fisici e spirituali, medici ed emotivi – e di chi gli sta intorno. È una sfida nuova anche per la scienza medica”.

Giacomo Galeazzi: