“Il governo non si costituirà contro l’ammissibilità dei referendum. Non ne ha alcuna intenzione”, è quanto il presidente del Consiglio Mario Draghi ha riferito durante la conferenza stampa di fine anno, rispondendo a una domanda sui referendum; e ha aggiunto che “il governo avrebbe potuto in alcuni casi creare delle condizioni per cui la presentazione sarebbe slittata all’anno prossimo e non lo ha fatto”. Così il Centro studi Rosario Livatino in merito all’ammissibilità del referendum.
Sull’argomento, il governo si è quasi sempre costituito nel relativo giudizio davanti alla Consulta. Su temi etici è sufficiente ricordare le sentenze n. 45, 46, 47 del 2005, riguardanti i referendum abrogativi della legge n. 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita: nei relativi giudizi di ammissibilità l’avvocatura dello Stato era ben presente. Senza andare così lontano nel tempo, in epoca più recente il governo si è costituito, per esempio, nei giudizi conclusi dalla sentenze n. 26, 27 e 28 del 2017 per i referendum sui voucher e in materia di lavoro.
Il premier Draghi non solo ha rivendicato la non costituzione del governo per un referendum che propone di non punire più l’omicidio del consenziente – nulla a che vedere col suicidio assistito o con l’eutanasia, evocati in conferenza stampa -, bensì pure il varo di due distinti decreti legge che hanno permesso di far slittare i termini per la raccolta delle firme: a maggio quanto all’avvio della raccolta e poi dal 30 settembre al 31 ottobre quanto alla conclusione.
Se la mancata costituzione del governo nel giudizio di ammissibilità dei referendum ha pochi precedenti, la protrazione del termine per la raccolta delle firme precedenti non ne ha: essa ha reso possibile oltrepassare le 500.000 sottoscrizioni per il quesito sulla droga, mentre tale traguardo non sarebbe stato raggiunto entro settembre. Questa non è neutralità: è una scelta precisa e non equivocabile verso una deriva libertaria e di morte.