L’orizzonte è il prossimo novembre. Sarà il momento in cui Erevan e Baku si siederanno al tavolo negoziale non per trattare ma, in teoria, per firmare l’accordo di pace che dovrebbe porre fine al conflitto in Nagorno Karabakh. E, in qualche modo, ridisegnare i contorni di una contesa che, dopo essere costata sangue e sofferenze, potrebbe essere risolta da quegli stessi principi che avrebbero dovuto provvedere a farlo già una trentina d’anni fa. Lo ha riferito il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, secondo il quale, assieme all’Azerbaigian, il Paese sta lavorando a un accordo sulla pace e sul ripristino delle relazioni diplomatiche, con delimitazione dei confini “sulla base della Dichiarazione di Alma-Ata del 1991”. Ossia, secondo i criteri che decretarono di fatto i confini politici degli Stati indipendenti sorti a seguito della disgregazione dell’Unione Sovietica.
Il Nagorno Karabakh svuotato
Un ritorno al passato che, secondo le intenzioni, dovrebbe mettere a punto anche la questione Nagorno Karabakh, la cui rivendicazione territoriale coinvolge azeri e armeni (inizialmente come Federazione Transcaucasica) fin dai primi decenni del Novecento. Da un lato la sovranità de iure dell’Azerbaigian e, dall’altro, la quasi totale presenza di abitanti di etnia armena, rappresentati dall’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh. La cui presenza ufficiosa nel territorio è stata di fatto spazzata via dall’offensiva azera del mese scorso, che ha costretto praticamente la totalità dei cittadini armeni a un esodo di massa. Quasi 100 mila persone, in una marcia forzata fuori dal Nagorno Karabakh, per riparare in Armenia senza certezze su un futuro che nemmeno una pace firmata a tavolino sembra in grado di garantire.
Città fantasma
La ripresa del conflitto nel 2020 aveva riportato l’attenzione internazionale sull’enclave di Artsakh ma, in quel caso, la rivendicazione azera aveva solo minacciato l’escalation. Trascorsi tre anni, e dopo un accordo di tregua garantito dalla presenza di forze di pace di nazionalità russa al confine, Baku ha assestato il colpo decisivo, anche in virtù della fragilità di un garante a sua volta impegnato in un conflitto di larghe dimensioni. Eventi precipitati che, di fatto, hanno completato il tassello del dramma parzialmente scongiurato nel 2020, portando decine di migliaia di persone a lasciare in fretta la regione. Una situazione impellente che ha creato scenari post-apocalittici, come quello della maggiore città del Nagorno Karabakh, Stepanakert, diventata in pochi giorni un agglomerato di case vuote.
Le testimonianze
Un quadro che ha accelerato un dramma umanitario rimasto sopito (ma non certo eliminato) a seguito della tregua. “Con la nostra squadra di emergenza – è la testimonianza riportata di Elisa, operatrice di Azione contro la Fame sul territorio – ci siamo subito mobilitati per individuare le necessità più urgenti e valutare l’entità dei bisogni, chiedendo alle autorità locali e alla popolazione colpita”. Condizioni di sofferenza maggiormente evidenti all’arrivo in Armenia degli esodati, bisognosi di acqua, cibo e alloggio, oltre che di sostegno psicologico.
“Durante la mia visita al centro di registrazione di Parakar, ho conosciuto Nora, una giovane donna di 26 anni. Nora mi ha raccontato del viaggio tremendo affrontato con la sua famiglia, e del piccolo fratello di 7 anni che non riesce ancora a dormire perché teme i bombardamenti notturni”. L’eredità di un esodo di massa che ha messo a dura prova i confini nazionali armeni e che l’intesa sulla pace (qualora effettivamente vada in porto) potrebbe lenire più che risolvere se la radice culturale dovesse rivelarsi più forte dell’antidoto politico.