Mea maxima culpa

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Tra le preghiere cristiane ho sempre avuto una particolare attrazione per il Confiteor poiché ritengo che il riconoscimento pubblico della propria colpa, cui fa da indispensabile corollario il sincero pentimento, costituisca l’essenza della natura cristiana. Il sacramento della penitenza si fonda sulla riconciliazione, unica via di soluzione del problema provocato dall’allontanamento dalla retta via e deriva direttamente dalla infusione dello Spirito Santo, che costituisce l’ultimo atto del Cristo risorto, celebrato nella domenica della Pentecoste.

È un momento immenso quello della consapevolezza del proprio errore, illuminato solo dalla luce effusa da uno sguardo differente, che staglia nitida l’incongruenza tra il proprio agire ed il proprio essere: ed è l’unica sicura fonte di una certezza che l’errore non verrà più commesso. Chiunque abbia sbagliato ed abbia avuto consapevolezza del proprio errore sa che non lo commetterà più. A questo dovrebbe tendere la pena irrogata al reo, a questo dovrebbe tendere il recupero del colpevole, a questo mira ogni azione tesa ad eliminare il male.

In questo mese si è ricordato il sacrificio di Aldo Moro e la stagione del terrorismo che tante vittime ha mietuto negli anni Settanta: era una lotta ideologica per combattere il nemico identificato con il sistema oppressore dei deboli, era la battaglia politica cruda e violenta per l’affermazione delle proprie idee, era la guerra urbana assunta a metodo per cambiare il mondo, sperando in meglio. Chi ha vissuto quegli anni li ricorda bene: dalle occupazioni alle barricate, dalle manifestazioni alle intransigenze, dalle cariche agli assalti, sempre con una dose di energica determinazione che spesso lasciava la mano alla violenza. E ci fu un momento ben preciso dell’onda sessantottina quando, forse sulla scorta della guerriglia urbana adottata a metodo di lotta nell’America latina, molti giovani, non saprei se infatuati o risoluti, scelsero la strada della lotta armata e della clandestinità e si trovarono incolonnati nelle Brigate, convinti o illusi che da lì avrebbero rovesciato il famigerato sistema oppressivo.

I nomi sono noti, le età oscillavano tra i venti ed i trent’anni, nel pieno del vigore ideologico, della determinazione causale, della rivendicazione culturale. Le vittime furono tante, le azioni cruente, gli epiloghi tragici, le inchieste insufficienti, il fenomeno non fu compreso a fondo: tanti di coloro che sbagliarono, perché indubbiamente sbagliarono, ancora vivono e molti di loro hanno avuto un sincero pentimento, non certo rinnegando le loro azioni o volontà ma rivalutando con diversa coscienza i propri comportamenti e riconoscendo gli errori, i gravi errori commessi, i danni immensi ed irreparabili arrecati alle vittime, ai loro familiari, a loro stessi. Altri no, non hanno, forse, ancora compreso di aver sbagliato.

Ho letto un libro verità di Angelo Picariello, Un’azalea in via Fani, giornalista che ha seguito i percorsi interiori di alcuni dei responsabili di quella pagina di storia contemporanea ed ho ascoltato le parole di chi c’era ed oggi è ancora in cammino per recuperare la parte migliore di sé: sanno di aver sbagliato, hanno capito che non solo non c’era speranza né futuro per quelle azioni, ma che esse erano profondamente contrarie alle regole fondamentali della vita. Erano giovani attivisti che interloquivano con altri giovani ma che in un determinato momento hanno imboccato una strada sulla quale gli altri, la grande maggioranza degli altri attivisti di quegli anni non li hanno seguiti. C’è davvero da chiedere perché se ne sono distaccati e le risposte finora fornite non riescono a focalizzare il momento decisivo; ma c’è da chiedere loro quando hanno capito di aver sbagliato, quando hanno iniziato il percorso di recupero che ha portato molti di loro a conseguire anche il perdono dei familiari delle illustri vittime colpite. Quel movimento è stato sconfitto, dallo stato ma anche dalla irrazionalità delle pretese che prima o poi doveva necessariamente emergere. Non voglio minimamente offuscare la genuinità e l’immenso valore del pentimento e del percorso di riavvicinamento che molti stanno ancora percorrendo ma mi chiedo quale sorte avrebbe avuto un diverso epilogo della lotta armata, se davvero lo stato fosse stato cambiato, se davvero quelle Brigate avessero vinto, se oggi non fossimo lontani anni luce da quelle logiche, il pentimento sarebbe lo stesso avvenuto? Io spero con tutto il cuore di sì, perché solo un sincero pentimento di un’azione sbagliata, qualunque causa l’abbia determinata, può garantire che lo Spirito rinnovator discese.

Roberto de Tilla: