Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si è recato in visita di Stato nel Regno dei Paesi Bassi, in occasione dei trent’anni del Trattato sull’Unione Europea. Il capo dello Stato ha tenuto una prolusione all’House of Government sul futuro dell’Europa. Riportiamo il testo integrale del discorso pronunciato da Sergio Mattarella, pubblicato sul sito ufficiale del Quirinale.
Il discorso del Presidente Mattarella
“Signor Governatore della Provincia del Limburgo, la ringrazio molto per la cortesia delle sue parole di accoglienza. Signora Borgomastro della Città di Maastricht, Signora Presidente dell’Università di Maastricht, Cari studenti, nel 1935 Johan Huizinga pubblicò il libro “Nelle ombre del domani”, che in Italia fu edito, due anni dopo, con il titolo “La crisi della civiltà”, tradotto dal professor Luigi Einaudi, che sarebbe diventato, nel 1948, il primo Presidente della Repubblica eletto dal Parlamento italiano.
Nelle prime pagine di quel libro si leggono alcune frasi che sembrano l’immagine profetica della straordinaria visione e degli immensi meriti dei fondatori del processo di integrazione d’Europa, sperato e disegnato mentre attraversavano la tragedia della guerra mondiale. Quell’integrazione europea che Huizinga, arrestato dai nazisti nel 1942 e morto confinato in un paesino nel febbraio 1945, non poté vedere.
Scriveva nel 1935: “Nessuno si stupirebbe se, un bel giorno, questa nostra demenza sfociasse in una crisi di pazzia furiosa, che, calmatasi, lascerebbe l’Europa ottusa e smarrita”. Ma aggiungeva, poco dopo: “Non mai l’uomo fu così disposto a operare, a osare, e a sacrificare di continuo il proprio coraggio, la propria esistenza a un bene comune. Egli non ha perduto la speranza”. Due anni dopo aggiungeva, nella presentazione all’edizione italiana: “Io non chiamo ottimista l’uomo che prende alla leggera i pericoli gravi bensì colui che tuttavia tiene alta la speranza, anche quando nessuna via d’uscita sembra presentarsi. La speranza può solo essere fondata sull’improbabile”. L’improbabile – la possibilità che i popoli d’Europa, cessata la tragedia della guerra fratricida, si unissero, decidendo di porre insieme il proprio futuro – avvenne.
Sono quindi lieto di essere qui, oggi, insieme al vice Presidente del Consiglio e al Ministro degli Esteri italiano, a celebrare, in questa città di frontiera e raccordo, i trent’anni di un passo fondamentale, quello del Trattato di Maastricht, che ha rappresentato un salto di qualità coraggioso nella costruzione europea, fra tutti gli elementi – ricordo – l’introduzione del concetto di “cittadinanza europea”. Sono onorato di poterlo fare qui, in questa sala, dove le delegazioni dei dodici Stati Membri dell’allora Comunità Economica Europea negoziarono e firmarono il Trattato che costituì l’atto fondativo dell’Unione.
Il percorso di integrazione europea è stato costellato di difficoltà, di contraddizioni, e ha richiesto passione ostinata e fatica instancabile, spese nella ricerca di comprendere e armonizzare le attese dei diversi protagonisti. Il contesto internazionale, a partire dalla “guerra fredda” e dalla sua evoluzione, ha inciso, naturalmente, nel forgiare il succedersi e le priorità negli atteggiamenti degli interlocutori. Un percorso accidentato; frutto, sin dall’inizio, di scontri tormentati e di incontri lungimiranti tra le sensibilità delle delegazioni dei vari governi impegnati nei negoziati. Permettetemi di esprimere compiacimento nel riscontrare che, sin dai primi passi, Paesi Bassi e Italia si sono trovati fianco a fianco in questo esercizio.
L’aspirazione a un’Europa unita nasce, all’indomani del conflitto mondiale, dalla grande scelta di cambiare radicalmente il corso della storia dei rapporti tra i popoli del Continente. Ha trovato allora sostegno nel contesto di un forte legame tra le democrazie che avevano riconquistato la libertà, con il supporto degli Stati Uniti d’America e con il contributo di pensiero di un leader globale che aveva portato il suo Paese a resistere all’ondata hitleriana, Winston Churchill. Due questioni, quella della difesa della indipendenza e libertà di ciascuno e quella della ricostruzione, hanno caratterizzato i primi passi dell’intesa fra i Paesi europei all’indomani della guerra.
Difficilmente avrebbe potuto essere altrimenti; e, nel richiamare questo aspetto, sembra quasi di delineare i termini delle sfide che incombono sulla comunità internazionale oggi a seguito della drammatica situazione in cui si dibatte oggi l’Ucraina dopo la sciagurata aggressione da parte della Federazione Russa. Proprio perché fondato su principi di diretta partecipazione dei popoli alle decisioni, l’orientamento dei diversi Paesi non è stato ispirato da una linea univoca, costante, in questi settant’anni. E’ stato influenzato, piuttosto e naturalmente, dagli indirizzi che, di volta in volta, si sono manifestati negli appuntamenti elettorali di ciascuno Stato. Si spiegano così il pendolo che ha accompagnato il proseguire della costruzione europea, gli avanzamenti e gli arretramenti, l’equilibrio instabile tra spinta federalista e opzione intergovernativa, l’irrisolto tema del rapporto di interdipendenza degli Stati. Troviamo, in realtà, di volta in volta, gli stessi protagonisti schierati sull’uno o sull’altro dei fronti possibili.
L’intendersi, l’accrescere la fiducia reciproca tra i partner, è stata opera paziente ed efficace. Troviamo, all’inizio, il graduale consolidarsi di forme associative come il Trattato di mutua difesa di Dunquerke del 1947 tra Francia e Regno Unito, ampliato ai Paesi del cosiddetto Benelux, l’anno successivo, e divenuto poi Unione Europea Occidentale (Ueo), con l’ingresso della Repubblica Federale Tedesca e della Repubblica Italiana dopo il rigetto da parte francese del progetto di Comunità Europea di Difesa. Registriamo qui una prima lezione destinata ad arricchire nella sostanza l’acquis europeo e a costituire una delle ragioni fondanti il processo di integrazione: il dare vita a istituzioni di difesa dirette a scoraggiare le guerre di domani. Potremmo dire che esperienze silenti, come nel caso della Ueo, – ben presto superata, dal punto di vista della cooperazione di difesa, dall’Alleanza del Nord Atlantico – in verità hanno dimostrato la loro importanza e il loro rilievo, se solo pensiamo che le cosiddette missioni di Petersberg (peace-keeping e gestione delle crisi), ormai inserite stabilmente nei Trattati dell’Unione, furono attivate nel 1992 in quel contesto. Ho accennato al tema della ricostruzione come ad un secondo pilastro, che si incrocia allora con la forte spinta proveniente dagli Stati Uniti d’America, in direzione dell’esigenza di un interlocutore unitario in Europa con l’avvio del Piano Marshall.
L’istituzione dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica, l’Oece, nel 1948, sia pure diretta alla gestione degli aiuti statunitensi, rappresentò una formidabile opportunità di incontro e dialogo tra i governi dei Paesi dell’Europa occidentale interessati all’operazione. Aprì all’avvio dei processi di liberalizzazione del commercio intraeuropeo che, a loro volta, portarono all’istituzione di strumenti come l’Unione Europea dei Pagamenti (Uep), primo esperimento, nel 1950, di cooperazione monetaria nel continente, realizzando di fatto la convertibilità delle monete dei 17 Stati coinvolti. Proprio la ricostruzione dell’Europa devastata dal conflitto bellico ci fa incontrare l’esperienza della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio.
Mettere in comune due risorse strategiche come l’energia (il carbone) e l’acciaio (materiale base per gli armamenti oltre che per lo sviluppo industriale) non deve essere stato facile nel clima gravato dalle diffidenze post-belliche. Con coraggio, i sei Paesi fondatori, tra cui Paesi Bassi e Italia, vi riuscirono! Riflettiamo su quel traguardo.
Nel 1951 i governi decisero di condividere il potere di determinare insieme investimenti, produzione, mercato di beni fondamentali, i salari dei lavoratori coinvolti, affidandolo a una istituzione collegiale, autonoma (l’Alta Autorità), al di sopra delle normative nazionali. Poniamoci una domanda. Siamo in grado di proporci di gestire in comune la questione strategica dell’energia oggi?
Sul terreno della Ceca e dei successivi sviluppi incontriamo un illustre cittadino olandese, Johan Willem Beyen – Ministro degli esteri nei primi anni cinquanta – che ebbe modo di illustrare alla Conferenza di Messina, nel 1955, un piano che proponeva di allargare la cooperazione dal campo del carbone e dell’acciaio, a tutti i livelli dell’economia, per un mercato comune. Da lì a due anni, a Roma, sarebbe stato firmato il Trattato che istituiva il Mercato Comune Europeo. Non era un tempo di idealisti, ma un tempo di governanti molto realisti e tuttavia dotati di chiara e coraggiosa visione del futuro.
Ho già richiamato gli inciampi che hanno, talvolta, rallentato se non interrotto il cammino dell’integrazione. Se il più clamoroso fu quello della Comunità Europea di Difesa, bocciata nell’agosto 1954 – come ho accennato – dall’Assemblea nazionale francese, momento delicato fu la politica della “sedia vuota”, nel 1965, per rinviare il passaggio dal voto unanime nelle decisioni europee a quello a maggioranza qualificata e stabilire la clausola dell’interesse “vitale” di un Paese membro. Per giungere poi ai referendum sul Trattato Costituzionale Europeo (2005), la cui bocciatura da parte di alcuni Paesi ha condotto al Trattato di Lisbona, il cui disegno si è rivelato inadeguato rispetto alla natura e alla ampiezza delle crisi che si sono manifestate e rispetto all’obiettivo di fare dell’Europa una protagonista nel contesto globale. Non vi è, per altro, ragione di stupore.
Questa nostra Europa ha attraversato periodi di stasi – come negli anni Settanta – alternati a periodi di intensa attività – come quello intercorso fra l’Atto Unico e Maastricht e i grandi allargamenti a est – ad altri di intensa delusione, come la ricordata mancata ratifica del Trattato Costituzionale. E, tuttavia, ci hanno accompagnato momenti di grande speranza, come il primo giorno di circolazione dell’Euro, il progressivo affermarsi di quello straordinario spazio di libertà che prende nome da “Schengen“, il continuo crescere del Programma Erasmus, la capacità messa in campo per affrontare la pandemia e le sue conseguenze. Si è via via affermata una cittadinanza europea. Noi, cittadini europei, non veniamo dal nulla. Siamo stati operosi edificatori di questa nostra comunità subito dopo la Seconda guerra mondiale.
E se oggi possiamo guardare agli orizzonti della cittadinanza europea, della moneta unica, di una politica estera e di sicurezza comune, di cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni, lo possiamo fare perché siamo debitori a Maastricht, a quel Trattato che consentì di trasformare il processo comunitario in un’Unione politica, capace di proiettarsi oltre un’integrazione meramente economica e commerciale. Una pietra miliare, l’atto di nascita di quello che un sincero europeista del mio Paese, il Presidente David Sassoli, chiamava “un nuovo progetto di speranza”, basato sull’aspirazione a “una unione sempre più stretta”, come dicono i Trattati.
Il contesto internazionale, ancora una volta, è determinante, e ci interroga in profondità. Non si può fare a meno di chiedersi quali prospettive immaginiamo per la nostra Unione, per i popoli d’Europa. Gli appuntamenti con la storia non possono essere evasi. Abbiamo il dovere di domandarci se siamo stati all’altezza delle prove che l’Unione Europea ha incontrato sul suo cammino. In cosa e quando abbiamo sbagliato? Siamo stati poco disponibili, avari nell’impegno? Abbiamo osato troppo poco? Rischiamo di andare indietro, di ridimensionare le nostre ambizioni ben oltre quello che la crescita di altre aree sta naturalmente determinando?
Ancora, cosa vogliamo fare di noi stessi, di noi europei? Quali traguardi ci suggerisce la civiltà di cui siamo orgogliosi portatori e testimoni? Come trent’anni addietro, in realtà, ci è richiesto un salto di qualità. Abbiamo bisogno oggi di scelte coraggiose e lungimiranti. Rinunciarvi significherebbe evadere dalle nostre responsabilità; rassegnarci all’irrilevanza. Occorre compiere queste scelte e individuare strumenti adeguati. L’entrata in vigore del Trattato di Maastricht è stato senz’altro uno dei momenti più stimolanti della nostra storia recente.
Non possiamo però omettere di ricordare come, già all’epoca, si manifestò nel dibattito pubblico, forse per la prima volta, l’euroscetticismo latente in alcuni Stati Membri circa la validità del percorso di integrazione intrapreso. Il Regno Unito scelse, in quell’occasione, di restare fuori dall’Unione monetaria e di non sottoscrivere l’Accordo sulla Politica Sociale; la vittoria del “no” al referendum danese portò a un nuovo negoziato e alla previsione di eccezioni anche per Copenaghen. Ma l’Unione andò avanti nella traiettoria decisa. Parliamo dell’altro ieri. Tanto il contesto in cui ci muoviamo oggi è mutato. Esistono comunque nessi storici tra i dibattiti che hanno accompagnato il trattato di Maastricht e quelli in corso attualmente.
La tensione verso un’Europa degli Stati o un’Europa dei cittadini è sempre stata tra le principali chiavi di lettura del complesso percorso europeo. L’approdo sin qui raggiunto è un ibrido che raccoglie insieme elementi del sistema intergovernativo ed elementi di sovrannazionalità. Basti pensare al rapporto diretto che hanno i cittadini europei con l’elezione del loro Parlamento Europeo, al diritto di iniziativa legislativa di cui godono nel sollecitare la Commissione Europea ad avanzare proposte per l’attuazione dei Trattati, alla legislazione europea direttamente applicabile nei contesti nazionali. Del resto è principio fondamentale che la sovranità appartenga ai cittadini. La cooperazione intergovernativa – che a lungo, da più parti, è stata ritenuta l’ambito in cui poter meglio garantire interessi definiti “nazionali” – sovente è stata frutto semplicemente dell’attardarsi dei rispettivi apparati produttivi nel progettare il futuro; frutto di uno sguardo rivolto al passato, di una visione statica, anziché dinamica della crescita delle società civili che, nel frattempo, si sono sviluppate in senso europeo.
È una visione che richiede di essere aggiornata: le nazioni che compongono l’Unione vivono nella pluralità istituzionale e multiculturale dell’Europa, che le riconosce e le sa valorizzare. Certo, tutto si può smontare – come la Brexit conferma – ma davvero possiamo intendere di proporre ai nostri popoli il ritorno a un passato che non c’è più? In un mondo sempre più interconnesso e caratterizzato da grandi soggetti internazionali? Le istituzioni sono figlie del tempo in cui operano, e lo riflettono.
Siamo riusciti, negli anni, nell’impresa di costruire un sistema democratico multilivello, sia pure imperfetto in cui, in Europa, i cittadini sono, nel contempo, cittadini di uno Stato e cittadini dell’Unione, legittimando, con il loro voto e la loro partecipazione, le pubbliche istituzioni. La Carta dei diritti fondamentali, vincolante ormai dal 2009, con il Trattato di Lisbona, lo afferma solennemente. Nessuno può ormai mettere in dubbio che esista un interesse europeo, dei cittadini europei in quanto tali; interesse che trascende, fonde e accorpa gli interessi nazionali. È un fatto e l’agenda dei fatti, facendo irruzione sull’agenda politica, ne determina priorità e sensibilità.
Avvenne così nel 1977 quando il presidente della Commissione Europea, Roy Jenkins, un britannico, fu posto nella condizione di rilanciare l’Unione monetaria dopo che gli accordi della Giamaica, l’anno precedente, abbandonando i cambi fissi, avevano assunto di fatto il dollaro come riferimento monetario in luogo dell’oro. E nel 1979 venne varato lo Sme, il Sistema monetario europeo.
È stato così quando la pandemia ha vulnerato molti dei nostri Paesi, ponendo a rischio la vita delle popolazioni, alterando le catene di valore, interrompendo normali flussi produttivi: l’Unione Europea, sollecitata su un tema come quello della salute, non di sua immediata competenza, è stata capace di intervenire con efficacia. In altri termini, le istituzioni rispondono e si modellano sulle esigenze che si manifestano e sulla intelligenza di sapervi corrispondere.
Eppure non possiamo contentarci di soluzioni sollecitate da singoli eventi, quasi occasionalmente, in una congiuntura in cui la pace e, dunque, la vita dei nostri popoli, l’avvenire dei nostri giovani, sono così pesantemente a rischio. Non possiamo ignorare che si registra sovente un sentimento di distanza dalle istituzioni avvertito dai cittadini e che vi va posto rimedio, giacché le ragioni alla base della costruzione europea, valide nel secondo dopoguerra, sono oggi altrettanto attuali.
Autorità politiche e accademiche, Cari studenti, nessuno potrebbe sorprendersi di fronte all’affermazione che l’Unione Europea non è perfetta. Da settant’anni è un cantiere permanente, da alimentare ogni giorno grazie al contributo di tutti. Le inquietudini, le impazienze circa le insufficienze della costruzione europea, piuttosto che produrre sconforto e paralisi devono sospingere a migliorare, ad adeguare ai tempi il processo di integrazione.
Siamo in una fase costituente dopo la Conferenza sul futuro dell’Europa, momento di alta partecipazione della generalità della popolazione europea alla costruzione dell’Unione che verrà. Il Parlamento Europeo e la Commissione hanno sviluppato gli spunti emersi dalla Conferenza. I cittadini europei si attendono un’Unione più efficiente, coesa, solidale e rappresentativa. Una vera casa comune. Un’Unione a misura di azioni e di interazioni più efficaci anche nei confronti del resto del mondo. Se tutti daremo prova di senso di responsabilità, capacità di visione, di rispetto e di lealtà reciproca, aumenteremo il senso di appartenenza nell’Unione.
Senza avere la pretesa di essere esaustivo, credo che tale sforzo possa essere utilmente indirizzato avendo presente quattro dimensioni fondamentali: l’adesione ai valori comuni; la garanzia della nostra sicurezza e della stabilità del Continente; il ripensamento della politica energetica; il completamento dell’Unione Europea con i processi di adesione. In primo luogo, approfondire la comune adesione ai valori e ai principi che ci ispirano, incentrati e incardinati in un sistema giuridico coerente, fondato sullo Stato di diritto. Insieme formiamo una comunità di diritto, assistita dal principio di primazia della normativa comunemente decisa in sede europea su quelle nazionali, in un dialogo strutturato e costante tra la Corte di Giustizia e le Corti degli Stati Membri per una tutela giurisprudenziale uniforme, a garanzia di cittadini e imprese, da Atene a Dublino, da Helsinki a Lisbona.
In secondo luogo, dobbiamo proseguire in una riflessione rigorosa sugli strumenti a nostra disposizione per garantire sicurezza e stabilità al nostro Continente. Cioè, in altre parole, identificare obiettivi comuni di politica estera e di difesa che rendano concreta la prospettiva di un’autonomia strategica dell’Unione Europea. Induce al rammarico pensare che il Consiglio Europeo di Helsinki, nel dicembre 1999, aveva già deciso di dotarsi di una forza militare a livello di Corpo d’Armata (50-60.000 unità), quale strumento a disposizione per gestire le crisi, a supporto della Politica estera e di sicurezza comune.
L’autonomia strategica è base necessaria di quella sovranità comune che ho richiamato poc’anzi e che rappresenta il presidio della nostra libertà e dei nostri valori: pace, democrazia, solidarietà. Tanto più oggi, di fronte alla grave crisi di sicurezza che l’Europa sta attraversando.
Cruciale per la stabilità e per la prosperità dell’Unione Europea è anche la stabilità e la prosperità del nostro vicinato meridionale. L’interdipendenza esistente tra le due sponde del Mediterraneo rende urgenti gli investimenti in termini di attenzione politica verso la Sponda Sud. La risposta alla stessa sfida migratoria, infatti, avrà successo soltanto se sorretta dai criteri di solidarietà all’interno dell’Unione e di coesione nella risposta esterna e da una politica lungimirante nei confronti della regione africana.
A parte i profili etici penso che sia bene tener presente che tra pochi decenni il rapporto di popolazione tra Africa e Unione Europea sarà di quattro a uno e i Paesi di quel Continente, dotati di una grande quantità di materie prime di immenso valore, una volta sviluppata un’adeguata capacità organizzativa, rivestiranno peso e influenza nella comunità internazionale. Non è improprio pensare che il loro atteggiamento nei confronti dell’Unione sarà corrispondente al grado di solidarietà che oggi viene riservata a loro e ai loro migranti.
Mentre intensifichiamo il dialogo con i Paesi terzi di origine e transito dei migranti, dobbiamo lavorare affinché i principi di coordinamento e di responsabilità condivisa tra Stati Membri guidino la risposta comune a un fenomeno determinante per le nostre stesse prospettive di crescita. Tutto questo sollecita ancor di più l’intera comunità internazionale e, appunto, per quanto ci riguarda da vicino, l’Unione, a raggiungere intese efficaci e rispettose dei diritti di ciascuno. Così si progetta un futuro condiviso.
In terzo luogo, occorre ripensare le scelte di politica energetica. Sarebbe inutile elencare in dettaglio fragilità europee che questi mesi di guerra hanno abbondantemente evidenziato, con gravissime conseguenze economiche e sociali per i nostri popoli. Non è il momento delle esitazioni né delle scelte egoistiche. Al contrario, i bisogni cui far fronte sono tali da richiedere coraggio e determinazione. Vanno nella giusta direzione i progressi compiuti nelle ultime settimane, a cominciare dalla decisione di definire un tetto al prezzo del gas, cosa che ha già contribuito alla discesa dei prezzi dell’energia. Al contempo, ripensare la politica energetica dell’Unione significa stimolare la ricerca di nuove fonti e di nuovi approvvigionamenti in linea con i nostri valori, con i nostri interessi, con le scelte già compiute nell’ambito del Green Deal e con i nostri obiettivi di politica estera. L’Unione è stata una formidabile piattaforma che ha diffuso stabilità e valori intorno a sé, realizzando il principio di non avere nemici alle proprie frontiere.
Se non lo facessimo, se non garantissimo continuità e credibilità alla politica di cooperazione, se non procedessimo a completare il disegno di allargamento dell’Unione – dall’Ucraina ai Balcani occidentali, cui abbiamo promesso l’adesione nel lontano 2003 – lasceremmo vuoti destinati a essere colmati da altri attori, espressione di valori e interessi diversi dai nostri.
Si tratta di un “investimento geo-strategico” i cui vantaggi sono infinitamente superiori ai grandi svantaggi prodotti da un’Unione chiusa in se stessa, incapace di contribuire a definire obiettivi globali e di creare intese con i vicini.
Autorità politiche e accademiche, Cari studenti, ho il piacere di rivolgermi a voi al termine di una visita di Stato che ha rinnovato, e ancora una volta suggellato, l’amicizia tra i nostri Paesi. Un’amicizia non di maniera, che consente un franco confronto anche sui temi in cui le posizioni di partenza appaiono distanti. I Paesi Bassi e l’Italia, Paesi fondatori dell’Unione, condividono la visione di un’Europa aperta al mondo, promotrice di saldi valori, attenta ai diritti sociali. La forza della nostra Europa è la sua capacità di unire i diversi, di trovare soluzioni concrete dall’incontro tra posizioni all’apparenza inconciliabili. Per questa ragione, nell’accogliere, con riconoscenza, il graditissimo invito delle Loro Maestà il Re e la Regina dei Paesi Bassi, ho desiderato concludere qui – e nella vicina Heerlen – questa visita di Stato.
Maastricht è un esempio di successo, testimonia che il negoziato e il compromesso non sono esercizi “al ribasso”, bensì processi in grado di giungere a soluzioni creative e innovative, a beneficio di tutti gli attori che si impegnano con onesta determinazione sia a sostenere la propria visione sia all’ascolto di quelle degli altri. Più volte, anche negli ultimi anni, i leader europei, posti di fronte a una crisi esistenziale per l’Unione, hanno dimostrato di essere all’altezza. Non dubito che anche negli anni a venire i nostri due Paesi, insieme agli altri Stati Membri e ai Paesi candidati a diventarlo, sapranno offrire all’Europa prospettive alte e ambiziose, trovando ispirazione nel clima che qui animò le discussioni per giungere al Trattato. Vi ringrazio e auguro, a tutti noi, buon lavoro!”.