Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è questa mattina nei luoghi del disastro del Vajont dove 60 anni fa ci fu la tragedia che causò la morte di duemila persone.
Vajont: Mattarella arriva a Fortogna
E’ arrivato alle 11:00 a Fortogna al cimitero delle Vittime, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dove ha partecipato alle celebrazioni del sessantennale della tragedia della diga del Vajont. All’evento hanno preso parte numerose rappresentanze di reduci, soccorritori, alpini e bambini delle scolaresche. La cerimonia si è conclusa dopo mezz’ora. Subito dopo, il corteo presidenziale si è diretto verso la diga del Vajont.
Vajont: Zaia, giornata dev’essere in onore anche sopravvissuti
“Dopo 60 anni, purtroppo, c’è un oggettivo rischio che questa diventi soltanto una giornata del ricordo. Per me dev’essere si’ la giornata in memoria di chi non c’è più; ma anche in onore dei vivi, dei sopravvissuti, perché questo è un territorio segnato indelebilmente dal quel disastro. I 1.910 morti danno la dimensione di quella tragedia”, Lo ha detto il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, partecipando al cimitero monumentale di Fortogna (Belluno) alle cerimonie per il 60/o anniversario del Vajont, alla presenza del presidente Sergio Mattarella. Zaia ha ricordato che oggi “è la giornata nazionale del ricordo delle vittime dei disastri ambientali e industriali, causati dall’incuria dell’uomo. Vale la pena allora ricominciare a parlare del rapporto uomo-natura, coinvolgendo soprattutto i giovani, i veri soggetti che ci possono indicare la via”.
Il sopravvissuto: “Per noi fu come la fine del mondo”
Gli abitanti di Longarone e della valle del Piave ebbero solo quattro minuti per tentare di mettersi in salvo, la notte del 3 Ottobre 1963, prima che l’onda generata dalla frana del Toc nell’invaso del Vajont superasse la diga, radendo al suolo il paese. Erto, Casso e Castelavazzo sono diventati paesi fantasma, con case e finestre sbarrate. Longarone è stata rifatta a forza di cemento armato. I sopravvissuti sono ormai poche decine.
“Per noi fu come la fine del mondo. E un evento del genere non si può descrivere. Solo chi c’era può capire” dice oggi Italo Filippin, 79 anni, già sindaco di Erto e Casso (Pordenone), da molti anni diventato il più apprezzato “informatore della memoria” per le quasi 100mila persone che ogni anno vengono a visitare la Diga del Vajont, gestita dal Parco naturale delle Dolomiti friulane. “Solo all’alba capimmo cosa era accaduto”. Il bilancio ufficiale fu di 1.910 persone morte, tra cui 487 di età inferiore ai 15 anni.
Il discorso di Mattarella
In occasione del 60° anniversario del disastro del Vajont, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è recato nei luoghi della tragedia. Il Capo dello Stato ha deposto una corona in memoria delle vittime del Vajont al cimitero di Fortogna. Successivamente è intervenuto alla cerimonia commemorativa nel corso della quale hanno preso la parola Massimiliano Fedriga, Presidente Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e Luca Zaia, Presidente Regione Veneto. La cerimonia si è conclusa con l’intervento del Presidente Mattarella, che riportiamo integralmente.
“Siamo qui oggi, con il Presidente della Camera dei deputati, il Ministro che rappresenta il Governo, i Presidenti delle Regioni Friuli-Venezia Giulia e Veneto, i Sindaci di Longarone, Erto e Casso e Vajont, e tanti altri Sindaci delle due Regioni presenti. Siamo qui a rendere memoria di persone. Le persone che hanno abitato queste vallate. Quelle che sono morte il 9 ottobre 1963. Quelle che sono sopravvissute. Quelle che hanno dovuto lasciare le loro case e quelle che hanno lottato strenuamente per ricostruirle, per rimanervi.
Storie di luoghi che non ci sono più, storie di luoghi che la tenacia degli abitanti ha voluto far rivivere dopo la tragedia. Insieme con Longarone, Pirago, Maè, Villanova e Rivalta, Frasèin, Col delle Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè, Erto e Casso. Oggi ci troviamo in un Parco, quello delle Dolomiti Friulane che, nella bellezza di questi luoghi, doverosamente, dedica percorsi alla memoria.
Siamo di fronte a due quadri: quello delle Prealpi Carniche. E la diga, creazione artificiale. Entrambi, oggi, silenti monumenti alle vittime, a quelle inumate nei cimiteri, a quelle sepolte per sempre nei greti dei torrenti, sulle pendici: donne, uomini, bambini. Quasi cinquecento bambini. Immenso sacrario a cielo aperto che si accompagna al Cimitero di Fortogna, mausoleo nazionale, dove è stato significativo, poc’anzi, vedere 487 bambini in ricordo di quelli morti allora.
Riflettiamo: la frana, la sparizione, nel nulla, di un ambiente, di un territorio, di tante persone. La cancellazione della vita. Sono tormenti che, tuttora – sessant’anni dopo – turbano e interrogano le coscienze. Il generale Giampaolo Agosto, allora giovane ufficiale del 6° Reggimento artiglieria da montagna, intervenuto con gli uomini al suo comando, nelle ore immediatamente successive alla tragedia, ha ricordato, in queste settimane, che i suoi soldati, di fronte a tanto orrore, avevano gli occhi fissi nel vuoto. Vogliamo, oggi, sforzarci di immaginare di specchiarci anzitutto negli occhi di coloro che non ci sono più; che, quando giunsero gli alpini, non c’erano più. Negli occhi dei soccorritori. Negli sguardi severi dei sopravvissuti. Negli occhi di chi oggi è, qui, depositario di questi territori. Per poter dire che la Repubblica non ha dimenticato.
Per poter dire che – come ha esortato il Presidente Zaia poc’anzi – riuscire ad assicurare condizioni di sicurezza e garanzia di giustizia – come richiede il buon governo – rimane obiettivo attuale e doveroso nella nostra società. Perché occuparsi dell’ambiente, rispettarlo, è garanzia di vita. Per non capitolare a quello che il Presidente Fedriga ha chiamato “desiderio cieco dell’uomo di piegare a proprio piacimento la natura per guadagnarne il massimo profitto”. A un intervento dell’uomo che si traduce in prevaricazione, corrisponde la violenza della natura. Quella violenza che la sapienza delle popolazioni locali, in antica intimità con l’ambiente, sa temere e da cui cerca riparo, sapendo come va rispettata la natura.
Il disastro del Vajont, come sappiamo – e come è stato ricordato – venne paragonato a quello determinato dallo spostamento d’aria derivante dall’esplosione di un ordigno nucleare. Le Nazioni Unite hanno classificato questo evento come uno dei più gravi disastri ambientali della storia che sia stato provocato dall’uomo. Per questa ragione, il 9 ottobre, è stato indicato dal Parlamento “Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall’uomo”. La tragedia che qui si è consumata reca il peso di gravi responsabilità umane, di scelte gravi che venivano denunziate, da parte di persone attente, anche prima che avvenisse il disastro. Assicurare una cornice di sicurezza alla nostra comunità significa saper apprendere la lezione dei fatti e saper fare passi avanti.
L’interazione dell’uomo con la natura è parte dell’evoluzione della natura stessa. Perché l’uomo fa parte della natura, ma non deve diventarne nemico. Non si tratta di un tema di esclusivo carattere ecologico. Ce lo ha ricordato, pochi giorni addietro, anche Papa Francesco nella sua recentissima esortazione. Si tratta di saper porre attenzione e saper governare, con lungimiranza, gli squilibri che interpellano, mettendo in discussione, l’umanità e i suoi destini. Sui luoghi della tragedia, il giorno dopo svettava, solitario, a Pirago, il campanile della Chiesa di San Tomaso apostolo.
Il tempo non diluisce il dolore, ma quel campanile, oggi restaurato, appare, nella sua solitudine, quasi simbolo della resilienza di questo territorio e della sua gente. Gente di paesi che, come poc’anzi, al cimitero di Fortogna, ricordava il Sindaco Padrin, ha voluto tornare alla vita. Di chi – insieme allo strazio della perdita dei propri cari, della propria casa, dei propri averi – si è trovato di fronte a una scelta angosciante: andarsene o ‘resistere’. Esperienze che ritroviamo nei dialoghi di un sopravvissuto di Erto, Mauro Corona, nel suo ‘Quelli del dopo’. Quel che li ha guidati – e che deve muovere anche noi – è l’ansia di riconciliarci con il mondo che ci ospita, con la natura e l’ambiente in cui siamo immersi.
Perché i disastri cambiano i luoghi ma il futuro delle popolazioni dipende anche dalla resistenza di coloro che, come i valligiani di questi luoghi, non si sono arresi. Un altro impegno si avverte, irrinunziabile. Quello della memoria che i cittadini di questi Comuni continuano a coltivare e che tutti avvertiamo come compito della Repubblica. Anche per questo motivo ritengo che sia non soltanto opportuno ma doveroso che la documentazione del processo celebrato a suo tempo sulle responsabilità rimanga in questo territorio. Quella documentazione era stata, necessariamente, raccolta nei luoghi del giudizio penale perché aveva allora una finalità giudiziaria. Conclusi, da tanti anni, i processi, oggi riveste una finalità di memoria. Appunto per questo, è stata inserita dall’UNESCO nel suo registro della memoria. E quel che attiene alla memoria deve essere conservato vicino a dove la tragedia si è consumata. Per rendere onore alle vittime del Vajont e per riceverne un ammonimento per evitare nuove tragedie”.
Fonte: Ansa