Era il 4 giugno 1992 quando all’indomani della fine delle riprese de “Il postino” film di Michael Radfor Massimo Troisi si spense. Appena 12 ore dopo la fine del suo film più ambizioso e impegnativo, Massimo scivolava dal sonno alla morte nella casa di sua sorella Annamaria, a Ostia, dove aveva trovato rifugio dopo le fatiche di un set che non avrebbe dovuto affrontare. Il film che fu uno dei suoi più grandi successi e segnò anche il suo congedo dai fan e dal mondo del cinema. Aveva soli 41 anni ed una vita molto sofferta a causa della salute cagionevole. Sin da giovane a Troisi è stato riconosciuto uno scompenso cardiaco alla valvola mitralica per cui si sarebbe dovuto operare negli Stati Uniti qualche giorno dopo la fine delle riprese dell’ultimo film; l’obiettivo principale però per Troisi fu quello di portare a termine le riprese de Il postino, che rimarrà quindi la sua ultima prova per il cinema. Proprio per questo ruolo, Troisi ricevette una candidatura postuma al Premio Oscar come miglior attore protagonista.
Il Pulcinella senza maschera
Nato il 19 febbraio del 1953 da un macchinista ferroviere e da una casalinga, il “Pulcinella senza maschera” che il pubblico avrebbe amato fin dall’esordio con “Ricomincio da tre” (1981), si era formato sulle tavole del palcoscenico, istintivo erede di Eduardo e di una napoletanità irridente e dolente che avrebbe traghettato in un diverso sentire, quella della “nuova Napoli” di Pino Daniele e di Roberto De Simone. Col gruppo “I Saraceni” e poi con gli inossidabili amici de “La Smorfia” (Lello Arena ed Enzo Decaro) uscì presto dai confini vernacolari del successo paesano per portare la sua lingua (un napoletano vivacissimo e torrenziale, sincopato e colorito, “l’unica lingua che so parlare, a dire il vero”) sulle reti televisive nazionali e poi al cinema. Com’era accaduto a Eduardo e a Totò, quella parlata divenne comprensibile a tutti oltre le parole, sinonimo di un sentire universale in cui la maschera diventava volto e il personaggio un paradigma universale.
Il successo inatteso, ma clamoroso e immediato
Erano gli albori di quegli anni ’80 che portavano alla ribalta insieme a lui la generazione dei Moretti e dei Benigni, ma fu proprio col toscanaccio Roberto che Troisi trovò un’empatia istintiva, festeggiata dal pubblico col clamoroso successo di “Non ci resta che piangere” (1984) in cui il suo surreale “grammelot” faceva da efficace contrappunto alla paradossale cornice storica di un esilarante viaggio nel tempo fino alla Firenze medicea. Oggi il ricordo della scomparsa di Massimo Troisi che ogni anno si ripete con sempre più numerose manifestazioni di affetto, nei confronti del grande artista napoletano, è la dimostrazione dell’impronta ineguagliabile lasciata dalla sua gentilezza e dalla forza del suo cinema, prima come grande comico e poi come regista, fino agli ultimi giorni della sua esistenza.