“Canà, indovini chi le ho preso?”. Non era svenuto con Rummenigge, ma a sentire l’ultimo nome sì. Alla Longobarda non arriverà mai Diego Armando Maradona, ma qualsiasi allenatore degli anni Ottanta, compreso Lino Banfi nei panni del buon Oronzo Canà, avrebbe avuto giri di testa a sentire quel nome accostato alla propria squadra. E non che di fenomeni non ne girassero nella Serie A di allora. Praticamente ogni squadra aveva il suo “straniero” d’oro, per non parlare degli italiani. Maradona era uno di quei fenomeni, capace di conquistare Napoli come Falcao aveva conquistato Roma. Di vincere come lui, anzi, più di lui. Di entrare nel cuore dei propri tifosi, che un giocatore così non lo avrebbero rivisto più. A Napoli sono passati anni bui, rinascite, risalite fra i grandissimi, con giocatori fenomenali che, magari, hanno segnato anche più di lui. Ma Diego fu altro per la città. Emblema di una stagione forse irripetibile, quando pallone e passione erano un binomio indissolubile. E soprattutto alla portata di tutti.
Maradona a Buenos Aires
Guai a pensare che Diego fu solo la Mano de Dios o El gol del Siglo. Anzi, lui stesso disse più volte che con la maglia dell’Argentinos Junior, nel 1980, ne segnò uno più bello. Ne esiste anche un video, in bianco e nero, sfocato, che mostra i movimenti del Pibe contro i colombiani del Deportivo Pereyra. Diciannove anni appena, per Maradona la più bella rete in carriera. Una delle prime davvero storiche, anche se la storia se ne ricorda appena. Forse perché non era un Mondiale e davanti non aveva l’Inghilterra di Shilton, Robson e Lineker. Eppure la parabola nel mito Maradona la cominciò proprio da lì, dalle Cebollitas di Buenos Aires. Quella storia che ogni ragazzino della periferia de La Plata sogna di vivere. Dai caminitos al calcio professionistico. Magari all’Albiceleste. Figuriamoci al Boca, insieme al River il sogno di ogni piccolo calciatore di Buneos Aires.
Dal Boca al Barça
Il Boca, appunto. Maradona realizzò il sogno della Bombonera, fra i festoni bianchi e la foga del Superclasico. Un’atmosfera rovente che il Pibe respira appena. Una stagione (da protagonista), poi il momento no della società Xeneizes, l’accordo col Barcellona e il debutto in Europa. Lontano da quell’Argentina dove, come disse qualche anno fa, scelse di restare nonostante la corte della Juventus di Agnelli. Due anni, segnati più dagli infortuni che dai successi, compreso l’intervento di Goikoetxea contro il Bilbao, che mandò in pezzi la sua caviglia e lo estromise dai campi per diversi mesi. Se lo sarebbe ritrovato davanti, il Macellaio di Bilbao, in una opaca finalissima di Copa del Rey. L’occasione giusta per la vendetta, che arrivò puntuale, con una rissa scatenata subito dopo il fischio finale che assegnò la coppa ai baschi.
L’epilogo
Il Barcellona era già un sogno, non andato forse come avrebbe voluto. Ma la Serie A in quegli anni era un’altra cosa. E Napoli, dove lo accolsero 80 mila persone, era la piazza giusta per dimostrare di essere il migliore di tutti. Una città che nei suoi azzurri si identificava in tutto e per tutto, uno stato d’animo che Maradona finì per incarnare appieno. Una stagione di trionfi in un campionato di grandissimi, regalando alla Serie A un motivo che non parlasse la lingua del Nord. Col numero 10 sulle spalle, che il Napoli stesso deciderà che mai più nessuno avrebbe indossato. Una parabola magica, conclusa nel 1991. Positivo all’antidoping e l’inizio di una vita diversa. Il canto del cigno negli Stati Uniti, Mondiali 1994. Lì niente gol del secolo, ma una rete che riuscì a rubare la platea alla tripletta di un emergente Batistuta. Gli occhi del vecchio leone, pochi giorni prima della fine: un altro controllo e un’altra positività, che valsero la sua esclusione dal Mondiale. Quello che l’Argentina, vicecampione in carica, terminerà solo agli ottavi, contro la Romania di Hagi.
Campione del mondo
L’Albiceleste, una storia d’amore iniziata da giovanissimo e che va ben oltre la doppietta all’Inghilterra. Il Ct Menotti scelse di non chiamarlo nel 1978, nonostante fosse capocannoniere del campionato argentino, impedendogli di vincere il suo primo Mondiale. Si sarebbe rifatto con gli interessi otto anni dopo, nel 1986, quando il profumo della Coppa del Mondo lo aveva già respirato, con le due reti e il rosso contro il Brasile di Spagna ’82. In Messico entrò nella leggenda, lui e l’Argentina, di nuovo campione del mondo grazie alle sue prodezze. Da Buenos Aires a Città del Messico, la distanza fra il sogno di un bambino e la realtà del campione. La pagina più bella, quella che resta.