Si tende a parlarne meno che in passato, ma non per questo la situazione sull'isola di Lesbo vive tempi migliori. Nota più per i suoi campi profughi che per il suo mare o la sua storia, nonostante i richiami poetici di Saffo e Alceo, il lungo inverno delle oltre 20 mila persone stipate nell'hot spot di Moria (il più grande dell'isola) assume fin troppo facilmente i lineamenti della tragedia. D'altronde, che a Lesbo si fosse di fronte a un'emergenza umanitaria era chiaro da fin troppo tempo. Lo constatò di persona anche Papa Francesco, in visita sull'isola nel 2016, lo hanno più volte segnalato le organizzazioni che hanno prestato assistenza alle centinaia di famiglie stipate in abbondante sovrannumero nelle tende del campo (che di persone non potrebbe contenerne più di 3500) e attorno a esso, dove i migranti (perlopiù siriani, pakistani e afghani ma anche altri provenienti dall'Africa) hanno dovuto piantarle. Fra quelle tende la brezza marina non arriva, gli inverni solitamente miti dell'isola diventano gelidi, le condizioni di vita al limite dell'umano, a fronte di un'attesa che, per tempistiche burocratiche e inasprimento delle normative sulle richieste d'accoglienza in Grecia (e quindi in Europa), possono richiedere addirittura anni.
La protesta
Una situazione di emergenza pressoché continua, aggravata dalla decisione – risalente esattamente a sette mesi fa – del governo greco di dare un taglio all’accesso all’assistenza sanitaria pubblica a tutti i migranti (compresi i richiedenti asilo) non in possesso dei documenti, più volte denunciata dall'ong Medici senza frontiere. La spallata decisiva al clima di estrema tensione che aveva iniziato progressivamente a manifestarsi tra i quasi 55 mila profughi dell'isola, che all'inizio di febbraio hanno iniziato la loro personale protesta in luogo dei troppi appelli caduti nel vuoto. Istanze che si scontrano, d'altra parte, con lo scetticismo di chi ritiene che alleggerire gli iter burocratici provocherebbe il rischio automatico di un'invasione in Europa, ritenuto a quanto pare plausibile anche dal governo greco, almeno in parte. Il risultato è uno stallo estremamente pericoloso, che intrappola decine di migliaia di persone in confini sul punto di esplodere, con una progressiva diminuzione degli standard igienico-sanitari, oltre che di sicurezza. A farne le spese sono in particolare i minori e a lanciare l'allarme è ancora Msf, che per Lesbo (così come per lo Yemen, l'Afghanista, il Libano, l'Iraq e la Repubblica Centrafricana) ha avviato la campagna “Nati in emergenza” (attiva fino al 7 marzo), per raccontare il dramma continuo di chi nasce e cresce in contesti di guerra o, come nel caso dell'isola greca, in uno stallo di interminabile attesa: “Da marzo 2019, i nostri medici della clinica pediatrica, fuori dal campo di Moria a Lesbo, hanno visto più di 270 bambini con malattie croniche e complesse, fra cui problemi di cuore, epilessia e diabete. Non siamo in grado di fornire trattamenti specialistici per queste patologie, che d’altronde non trovano risposte adeguate neanche presso l’ospedale pubblico sull’isola di Lesbo, incapace di assistere un numero così elevato di pazienti, oltre a non disporre di alcuni servizi specializzati“.
La testimonianza
Carola Buscemi, pediatra di Medici senza frontiere, la realtà di Lesbo l'ha conosciuta e vissuta, toccando con mano il dramma continuo dei minori e delle loro famiglie: “Ho fatto tre missioni nel campo di Moria – racconta a Interris.it -. Ho iniziato nel 2018, quando sembrava di essere allo stremo con nemmeno 6 mila persone all'interno del campo. Ora la quota supera agevolmente le 20 mila persone, una situazione ai limiti dell'immaginabile“. A Moria Msf ha agito dapprima dentro il campo, poi trasferendo il suo ospedale da campo appena al di fuori, a seguito delle normative sempre più restrittive per gli hot spot dell'isola: “Come attività, abbiamo impiantato un consultorio pediatrico e una sezione di salute riproduttiva, dove lavorano soprattutto le ostetriche. Il nostro lavoro è incentrato sui più vulnerabili e fra questi ci sono naturalmente i bambini, per i quali si è reso necessario un dipartimento di salute mentale pediatrico. Abbiamo affrontato casi sconvolgenti, di bimbi anche molto piccoli con profondi stati d'ansia, cosa del tutto anormale per la loro età. Altri ancora con tendenze autolesioniste o addirittura con tentativi di suicidio alle spalle”. Sentimenti anomali, figli di quanto quei bambini vivono ma anche di quanto hanno vissuto: “Molti di loro avevano degli incubi terribili, in cui rivivevano brutte esperienze legate alla guerra. E le loro patologie sono naturalmente attribuibili alle loro condizioni di vita all'interno del campo, quindi sovraffollamento, scarsa igiene… Quando ho svolto la mia missione, di bagni ce n'erano uno ogni 80 persone. Sembra che ora ve ne sia uno solo ogni 500″.
Un dramma europeo
Il peggioramento della situazione nell'hot spot di Moria, assieme al progressivo inasprimento della legislazione in merito, ha fatto sì che una condizione già fortemente esasperata giungesse ai limiti estremi della ragionevolezza. E quindi della sopportazione: “Su Lesbo c'è un solo ospedale per 600 mila persone. Altre ong agiscono a Moria ma non si può far altro che del proprio meglio, in condizioni sempre peggiori ogni giorno che passa. I migranti lì dentro passano le giornate a fare file, per i bagni, per il cibo… E' naturale che in queste condizioni basti un niente perché tutto esploda, lì dentro ci sono persone di gruppi etnici molto diversi fra loro. Durante la mia prima missione ho assistito a una grossa lite fra curdi e siriani… Non è facile convivere in una realtà pessima sotto ogni aspetto a così stretto contatto. Quando arrivammo la situazione era già critica ma tutti riuscivano bene o male a restare nel campo. Ora alcuni dormono lungo la strada, oltre le recinzioni, persino sulle panchine delle strade. E pensare che il tutto avviene in Europa fa riflettere”.