In un Paese strutturalmente mal disposto verso le primarie, al punto da considerarle un problema e non una risorsa, la prima della Scala di Milano è stata una grande prova di democrazia diretta. I 5 minuti di applausi tributati al capo dello Stato Sergio Mattarella, con tanto di richiesta di bis, per lui, non certo per l’opera (così così), non sono stati un omaggio al potere rappresentato sul palco reale, ma un segnale diretto ai giochi da basso impero dei partiti. I quali, ciechi e sordi come i gattini appena nati, insistono nello sterile gioco del totonomi, a volte per bruciarne qualcuno, altre solo per far girare la giostra.
Uno spettacolo triste e anche un po’ stantio, ma l’unico al quale questi partiti sanno dare corpo. La crisi della politica italiana, in fondo, sta proprio in questo. Usare metodi vecchi in tempi nuovi. La standing ovation della Scala non è stato solo un gesto liberatorio di quella cosiddetta aristocrazia meneghina che non scende in piazza ma si conta nei salotti, è stato un voto palese, un segnale di sfratto ad una classe dirigente che si crede tale e non lo è. Certo, la partita per il Colle, mai come questa volta, sarà complessa e articolata, intrecciando i fili di mille ragionamenti e condizionamenti. Ma proprio per questo deve essere giocata a carte scoperte, indicando chiaramente le strade imboccate e le vie da percorrere.
Che sia Draghi o meno il punto di convergenza d’interessi divergenti fra loro è difficile dirlo. E, con tutta franchezza, preferiamo vederlo ancora lì, a Palazzo Chigi, per la fine del mandato governativo. Ma le strade per il Quirinale sono infinite e non tutte portano al Colle. Solo quelle che conducono a Roma hanno quel destino. Dunque non tener conto della prima della Scala, e del voto espresso, simile alle primarie per le presidenziali, sarebbe un errore tecnico e tattico per tutti. E un’appendice del settennato di Mattarella non è una eresia. Tutto dipende da quanto i partiti faranno per trovare l’accordo su questo punto. La platea della Scala non sarà il Paese reale, ma ne interpreta il sentimento, ne avverte le le vibrazioni di fondo.
“Il dilemma dell’Italia mentre Mario Draghi emerge come favorito per la presidenza. La prospettiva che l’ex capo della BCE si faccia da parte come primo ministro fa rischiare il ritorno dell’instabilità politica“, sostiene in una dotta analisi, in prima pagina, il Financial Times, entrando nel vivo della corsa al Quirinale. L’eminente quotidiano spiega che “la prospettiva che Mario Draghi si dimetta da primo ministro italiano per assumere il ruolo di presidente minaccia di far piombare il paese nell’instabilità politica proprio mentre il governo intraprende ambiziose riforme strutturali e un piano di ripresa dal coronavirus sostenuto da quasi 200 miliardi di euro di fondi UE”. La richiesta corale di un bis per Mattarella, dimostra come “l’establishment italiano”, si muova in quella direzione”. Ecco, gli italiani saranno pure poco allenati alle primarie, ma dopo La Scala devono iniziare a prenderci confidenza.