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I misteri del Coronavirus

Ha superato i mille decessi l'epidemia di coronavirus, la prova globale alla quale l'inizio del terzo decennio del Duemila ha deciso di sottoporci. Un allarme ormai su scala mondiale, nonostante la quasi totalità dei contagiati e delle vittime sia concentrata in Cina (dove il virus ha avuto origine e da dove ha iniziato la sua diffusione), ribadito a più riprese dall'Organizzazione mondiale della Sanità e, in ultimo, anche dall'epidemiologo Gabriel Leung, direttore del Dipartimento di Medicina all'Università di Hong Kong, che ha confermato le dimensioni dell'allerta arrivando a dire – una delle tante voci chiamate in causa – che il coronavirus potrebbe toccare circa i due terzi della popolazione mondiale. Un modo per riportare in numeri (parziali e ipotetici) il riferimento dell'Oms a una diffusione riscontrata al di fuori dei confini cinesi che potrebbe non essere altro che “la punta dell'iceberg”. Informazioni troppo in divenire per tracciare un quadro esaustivo, comunque sufficienti a scatenare un'allerta mondiale andata prevedibilmente oltre le precauzioni sanitarie. Inevitabile forse, un po' per il comprovato rischio legato all'epidemia, un po' vista la sostanziale (seppur breve) distanza temporale, per fare un paragone particolarmente riportato dalla cronaca, dalla più volte citata Sars, arrivata in un momento storico in cui l'informazione era ancora veicolata per la maggior parte dagli organi d'informazione ufficiali e i neologismi come “fake news” nell'immaginario collettivo non c'erano nemmeno entrati. Così come il mondo della rete stava iniziando allora a diventare parte della nostra quotidianità, senza esserne ancora veicolo continuo di contenuti.

Il “virus” delle fake

Ma il ruolo di internet e della moltitudine pressoché infinita di piattaforme digitali in grado di riversare al pubblico dominio un'altrettanta densità di informazioni assume, una volta tanto, un ruolo più di amplificazione che di condizionamento. Perché la paura dell'uomo e il suo riflesso nei processi di diffusione e autoconvincimento su qualcosa anche di non dimostrato, fa parte della sua natura, ben oltre lo sviluppo del web e dell'interscambio global. Anche per questo non è una sorpresa che, in merito a un'emergenza sanitaria reale che ufficialmente parla, al momento, di 1.115 morti e circa 45 mila contagiati, ci sia stato un discreto lavoro da fare per i debunker, attivi per limitare la condivisione di contenuti fallaci (soprattutto video sparsi per il web che mostrerebbero le conseguenze del contagio) e per rispettare le disposizioni degli organi ufficiali a non creare panico su scala mondiale, quello sì facilmente trasmissibile attraverso la rete. Più difficile contenere il sentimento di sfogo, che ha visto numerose persone di nazionalità o di origine cinese sottoposta a insulti, in alcuni casi vere e proprie aggressioni, a sfondo razziale. Deviazioni figlie di una psicosi nella sua più immediata e deprecabile modalità di esorcizzare la paura.

Il percorso del contagio

A ben vedere, del coronavirus si parla da nemmeno due mesi, tempo di riscontrare l'allarme sanitario in Cina e ricevere le prime stime ufficiali per poi individuare i primi casi al di fuori dei confini della Repubblica popolare, quasi tutti portati da persone provenienti dalla Cina o venute in contatto con pazienti cinesi già contagiati. Un lasso di tempo relativamente breve ma sufficiente a condensare le cronache mondiali e a suscitare il legittimo interesse della popolazione terrestre, oltre che all'automatica messa in atto di misure precauzionali immediate (mascherine in primis). Qualche settimana per l'isolamento del virus, la definizione del nome (Covid19), ma tempi decisamente poco ottimistici per la sperimentazione di un vaccino (18 mesi secondo il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus). Nel frattempo l'allerta diventa mondiale: la provincia di Hubei viene individuata come focolaio del virus, il numero di decessi e contagi supera in breve quello della Sars, si organizzano quarantene e si dà il via alle ricerche, cercando di battere sul tempo la diffusione di un allarmismo vulnerabile al panico generale. Difficile però…

Teorie del complotto

Praticamente di pari passo ai bollettini medici ufficiali, alcune testate (quindi non solo piattaforme social o altri canali passibili di inaffidabilità) parlano addirittura di numeri non corrispondenti alle stime reali, imputando al governo cinese di aver steso sulla vera portata dell'emergenza un velo di omertà, rivedendo in maniera esponenziale ma del tutto ipotetica e pretenziosa i numeri forniti fin qui, differenziando i casi reali da quelli riportati ufficialmente (in alcuni casi addirittura di 10 volte). Sospetti, anche in questo caso rimbalzati rapidamente su tutti i network mondiali, sul luogo di origine del virus: la città di Wuhan, infatti, è sede di un importante centro di ricerca, il National Bio-safety Laboratory, attrezzato per lo studio di malattie infettive emergenti. Quasi per inerzia emerge rapidamente l'ipotesi di un virus sfuggito dai bunker dei ricercatori (riportando in auge un sospetto già emerso in altre occasioni, come nella contenuta epidemia di Ekaterinburg del 1977), attribuendo al centro una funzione militare per la sperimentazione di armi biologiche (come sostenuto peraltro anche da un ex ufficiale dell'intelligence israeliana in un'intervista al Washington Times). Teoria tutt'altro che confermata anche per via dell'esistenza di laboratori del tutto simili anche in altre parti del mondo. Notizie prive di qualsiasi riscontro ufficiale quindi, figlie delle paure sociali. Come in passato, sì, ma con la spinta decisiva dei mezzi di comunicazione più potenti che favorisce la rapida diffusione anche di contenuti non verificati e che non manca di coinvolgere importanti organi d'informazione. Facile, in questo senso, alimentare teorie del complotto legate alle armi batteriologiche (vietate da una convenzione internazionale al pari delle armi chimiche), spettro terrificante della nostra epoca come l'atomica lo fu nei decenni finali del Novecento. E non mancano teorie allarmistiche sulle ripercussioni economiche portate di riflesso dal coronavirus: stop ai voli, ai viaggi, alle attività aziendali in Cina, alle produzioni, import, export, eventi internazionali (compresi quelli sportivi, con lo stop ai campionati di calcio e ora anche al Gp di Shanghai) e tutto ciò che contribuisce all'impalcatura economica del Paese. Una situazione che, vista la crescente influenza dei mercati cinesi, apre scenari presunti ma altrettanto allarmanti su un possibile “anno zero” dell'economia mondiale. 

Psicosi e razzismo: effetti collaterali

E' anche in virtù di questo che governi e ministeri hanno deciso fin da subito di fare della prudenza il diktat al quale fare riferimento. Se non altro nel prestare orecchio a ogni tipo di contenuto di facile fruibilità, ribadendo la linea guida del fare affidamento ai soli canali ufficiali, oltre che a far uso delle più elementari norme di sicurezza e prevenzione, in attesa che i ricercatori ne capiscano qualcosa di più. Tanto per ribadire che il messaggio è, ora come ora, capire con cosa si ha a che fare e come affrontare l'emergenza piuttosto che dar adito a voci correlate che possono creare effetti a catena difficilmente controllabili. Al momento l'allerta resta, confermata dall'Organizzazione mondiale della Sanità e con una vigilanza costante da parte degli organi competenti. E con l'invito a evitare che lo sfogo della paura vada a sfociare in discriminazioni figlie di un'associazione di significati, imputazioni arbitrarie di responsabilità, ritorsioni, episodi di razzismo. E di tutte le altre storie da “colonna infame”.

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