Conservare e rinnovare la memoria” è il mandato che ci è stato assegnato dalla legge 92 del marzo 2004. E a pensarci bene scriverlo è stato utile, non solo per istituzionalizzare il ricordo ma per aiutare le nostre coscienze a tenerlo vivo. Non è un caso che il Giorno in cui l'Italia ricorda le vittime dell'esodo istriano e delle foibe abbia richiesto che la parola fosse scolpita nella dicitura, oltre che istituzionalizzata. Perché per decenni la memoria non ha dato il suo apporto, troppo a lungo il nostro Paese ha lasciato che la nebbia del tempo cancellasse, o semplicemente oscurasse l'espatrio forzato degli italiani in territorio istriano, dalmato e giuliano consentendo alla tragedia dei campi profughi degli esodati di confondersi con i tanti drammi del secondo dopoguerra. Così come ai martiri delle foibe di restare laggiù, dimenticati a centinaia di metri dalla luce del sole. Gli italiani e gli oppositori della nuova Jugoslavia a guida Tito lasciarono case, attività, proprietà e beni al di là dell'Adriatico, estromessi come cittadini e privati in un colpo solo di quanto costruito fin lì. In tanti scelsero l'Italia, per nazionalità e per vicinanza, senza probabilmente immaginare che dopo la cacciata incombesse su di loro lo spettro della diffidenza e del pregiudizio.
Una nuova memoria
Giuseppe è uno di loro. Lui e la sua famiglia, italiani di Fiume, scampati alla guerra per andare incontro a un futuro da esodati in un Paese sconfitto, che a quelli come loro destinava un angolo nelle caserme dismesse e un rancio militare frutto del sussidio di 100 lire concesso dal governo: “Da Fiume ce ne andammo nel '46. Mio padre era carabiniere a Lubiana, in Slovenia, e in città avevamo due negozi di frutta. Non so per quale motivo, forse perché Fiume non godeva di molte colture né verde, ma era un'attività estremamente redditizia. Noi fummo cacciati, i negozi rimasero lì dov'erano. I “titini” furono feroci con le loro azioni di repressione, capaci di veri e propri orrori. In famiglia eravamo 8, fummo caricati su un treno nei vagoni del bestiame e lasciammo la nostra città per andarcene a Trieste”. Non da cittadini però, non ancora: “All'epoca Trieste era una città divisa e aveva un campo profughi dove ci accolsero, per modo di dire ovviamente. Con le mie orecchie sentii dire, ad alcune persone che pensavano in questo modo di intimorire i bambini, che li avrebbero dati da mangiare ai profughi. E pensare che fra di noi non c'era nessun profugo ma solo gente che non voleva diventare jugoslava, preferendo restare italiana”.
L'approdo in Italia
A cavallo fra gli anni 40 e 50 l'Italia inizia gettare le basi per rinascere. C'è da ricostruire tutto, in primis un tessuto sociale lacerato da vent'anni di dittatura e da una guerra che ha messo letteralmente in ginocchio il Paese. Per gli esuli di tempo ce n'è poco, di sussidi ancora meno: “Iniziammo una serie di spostamenti infinti, da Trieste a Udine, passando per Recanati, Ascoli e Bologna, anche Carrara, dove conobbi le Alpi Apuane, da un campo all'altro. Quando arrivammo ad Aversa, che allora veniva chiamata 'la città dei matti', assieme a mio fratello finii in un collegio di Anzio, dove potei continuare a studiare. Ma ogni volta che facevo ritorno in città la mia famiglia si era già spostata altrove: i campi profughi destinati agli italiani all'estero non ricevevano fondi statali e chiudevano rapidamente e loro non erano quasi mai nello stesso posto”. In un contesto come quello aversano, dove regnava l'analfabetismo, torna utile il suo status di studente: “Quando arrivai in città dal collegio sentii dire: 'E' arrivato uno studente'. Esserlo significava saper leggere e scrivere, cosa non scontata all'epoca. Entrai addirittura a far parte dello staff di un campo profughi con 15 mila persone, con tanto di autista e automobile. Il mio compito era andare al porto di Napoli, dove arrivavano continuamente tante persone, anche dall'Africa, alle quali dovevo trovare un alloggio. Era un incarico meno retribuito di altri ma dignitoso e ame, ragazzo giovanissimo, mi faceva sentire importante”.
La vita in caserma
Nel '51 si aprì l'opportunità che avrebbe cambiato la vita di molti, quella di imbarcarsi per l'America. Lontano sì, ma liberi di ricominciare davvero. Giuseppe non ci andò (“Avevo appena 17 anni”), mentre due dei suoi fratelli maggiori raggiunsero il Canada. Lui, con la sua famiglia, finì a Roma. Prima a Santa Croce, poi in una caserma sulla Via Casilina, dove trovavano posto non solo gli esuli giuliano-dalmati ma anche i romani sfollati durante la guerra. La prima casa sarebbe arrivata poco dopo, con il trasferimento ad Acilia: “Era un appartamento piccolissimo ma almeno era una casa. Nelle caserme avevamo come unica divisione dei teli appesi ai fili a mò di pareti, a volte capitava di trovarsi per sbaglio, durante la notte, nello spazio di qualcun'altro. Da mangiare avevamo solo una minestra dal sapore pessimo. E di bagno ce n'era uno. Uno solo, per centinaia di persone”.
La vecchia Fiume
Troppa vita da riconquistare per pensare a quella lasciata, specie per un giovane di nemmeno diciotto anni. Una storia, la sua, simile a quella di tanti altri ragazzi, costretti a dimenticare presto la loro infanzia per affrontare una realtà che ancora portava sul volto le ferite di una guerra disastrosa. I ricordi però resistono: “Ricordo l'entrata dei titini a Fiume, le violenze che mettevano in pratica, anzi, le 'vendette', come le chiamavano. Mio padre stesso le subì e ne portò le conseguenze per tutta la vita. Ma ricordo anche il porto della mia città, immenso, con delle navi grandissime che arrivavano ogni giorno. Ancora oggi conservo il mio dialetto fiumano e partecipare alle giornate in cui ci raduniamo, assieme ad altri che subirono le mie stesse privazioni, mi piace perché ho l'occasione di parlarlo ancora. Sì, ho visto anche le foibe. Quella di Basovizza, in Slovenia. Ricordo una scritta incisa su una pietra e queste fosse naturali, senza fondo. Erano impressionanti. A Fiume ebbi occasione di ritornare e c'era ancora la mia casa. Ma le vie in italiano no”.
Il ricordo
Da Roma Giuseppe ha cominciato a costruirsi il suo futuro, ottenendo un diploma e, infine, un lavoro che gli avrebbe dato soddisfazione. Uno dei tanti che furono testimoni di un orrore dimenticato per troppo tempo, che solo una legislazione è riuscita a scolpire nelle coscienze dell'Italia del Duemila, decretando la fine della damnatio memoriae di un dramma che si consumò appena al di là di un mare nemmeno troppo grande. Qualcuno pensò addirittura, finita la Prima guerra mondiale, di andarsela a riprendere quella città, simbolo della cultura mittleuropea. Qualche decennio dopo, quegli italiani lì si arrivò a considerarli stranieri in patria. Il ricordo è il minimo che gli si deve.