L’intervista al titolare del teatro Brancaccio, Alessandro Longobardi, ospitata nella fortunata rubrica audiovisiva Paolo Notari con piacere edita da In Terris, offre lo spunto per alcune riflessioni sulla evoluzione della comunicazione. Prima dei nativi digitali l’informazione ed il messaggio venivano filtrati attraverso la mediazione degli addetti ai lavori, quali giornalisti ed editori, professionisti i primi ed imprenditori i secondi, che garantivano qualità, organizzazione, serietà e responsabilità nella scelta degli argomenti, nella verità dei fatti, nell’approfondimento del commento e nell’adeguatezza dei mezzi necessari alla divulgazione. Erano appuntamenti scanditi le letture dei quotidiani e dei commenti degli editorialisti quanto le interviste di attualità ai soggetti direttamente coinvolti da parte di chi ne aveva competenza e preparazione.
Ne scaturivano dibattiti e commenti che si protraevano per più giorni, quando le notizie correvano e ne conseguivano gli approfondimenti, da cui palpitavano l’opinione contraria, il distinguo, il dialogo ed il confronto che vivacizzano ed arricchivano l’argomento stimolando il pubblico dei lettori e degli ascoltatori. Il digitale ha capovolto la piramide, come ha afferma Baricco nel suo saggio The Game: non c’è più mediazione perché l’accesso ai dati è divenuto diretto, come diretta ne è scaturita la elaborazione e la divulgazione. Se apparentemente sembra un enorme vantaggio per evidenti ragioni di superamento delle barriere e dei filtri mediante la fruizione immediata e libera della notizia, deve invece considerarsi che l’assenza di barriere e di filtri provoca il dilavamento del flusso senza alcun controllo. Il punto è spinoso e dirimente: tutti ambiscono a fruire liberamente di ogni bene ma è impossibile applicare questo metodo ad ogni aspetto dei rapporti col mondo e fino alle estreme conseguenze. Basti pensare alla necessità di filtrare ed incanalare le acque per poterne fruire, al pari delle occorrenze per proteggere l’effettivo godimento in sicurezza di quanto ci viene offerto, dalla natura come dall’opera dell’uomo. Sappiamo, infatti che il primo limite alla propria libertà è dato dalla pari libertà altrui, ma dobbiamo riconoscere che qualunque libertà deve fare i conti con la effettiva fruibilità in sicurezza e se il primo aspetto determina la codificazione dei rapporti e la delega alla loro regolamentazione, la seconda impone l’intervento degli esperti che ne garantiscono le modalità e ne impediscono il cattivo uso.
Sono considerazioni ovvie fino all’inverosimile ma si rendono necessarie per l’eccesso opposto raggiunto dalle liberalizzazioni avviate nella seconda metà del secolo scorso, in tutti i campi: dallo scioglimento del matrimonio si è arrivati alla dissoluzione della famiglia, dalla stabilizzazione dei lavoratori dipendenti si è arrivati alla eliminazione del lavoro subordinato, dalla facilitazione all’accesso allo studio si è arrivati alla frammentazione dei titoli di studio. Purtroppo, quando si modifica un rapporto occorre fare attenzione a rimettere gli elementi in equilibrio altrimenti il rapporto si perde. E così nella comunicazione: aperte le porte e vanificata la mediazione professionale e l’impresa editoriale, tutti possono dire la propria opinione difendendola con protervia perché si dice liberamente quello che si pensa. Viene da rispondere che è proprio lì il problema in quanto bisognerebbe all’inverso pensare quello che si dice. L’intervista a Longobardi ha questa caratteristica che emerge fin dalle prime battute: un giornalista attento, esperto e raffinato stimola garbatamente l’interlocutore ad esprimere il proprio pensiero sulla base della propria esperienza vissuta, lì dove dovrebbe essere l’informazione, lontana dal regime e dalle invettive di chi si vuole sostituire al regime, in equilibrio tra esperienza e consapevolezza, tra critica e indagine. Il giornalista è entrato nel vivo della vicenda consentendo a chi conosce di raccontare, criticare e suggerire con il tratto professionale e la garanzia di libertà. Ed il pubblico ha appreso che un teatro così noto come il Brancaccio non beneficia di contributi pubblici, si regge sulla capacità imprenditoriale di chi lo guida e della intensa collaborazione della nutrita squadra che lo gestisce, è attento alle esigenze del pubblico piuttosto che alla fabbrica del consenso, vende un prodotto culturale che si deteriora immediatamente se non viene divulgato ma che permane a lungo se ben collocato. Sono informazioni che non avrebbero potuto emergere in un talk-show o in un blog, il primo perché privilegia lo spettacolo ed il secondo perché inaridisce nella monotonia. È evidente, quindi, che la differenza è data dall’equilibrio tra le opposte pretese e per questa operazione ci vogliono maestri e professionisti, la cui mediazione è indispensabile, non solo preziosa. Ecco come si può andare dietro le quinte: con un esperto che ci accompagna, non da soli.