Entra la luce dalle finestre dell’Ospedale del Mare di Napoli e riaccende un po’ di speranza fra le corsie deserte. Lì, dove tutto sembra sospeso, persino l’aria pregna di salsedine del Golfo è diventata pungente per i gel disinfettanti. Da diciassette anni, come ogni giorno, don Luigi Castiello, percorre quelle stesse corsie, celebra la Messa nella cappella dell’Ospedale e offre conforto alle persone affrante. È lui stesso a confessarmi il cambiamento di queste settimane: prima un abbraccio o una stretta di mano erano le ancore estreme di questo mondo. Oggi anche la prossimità non è più consentita. Ma la vicinanza di Dio resta e l’impegno di don Luigi e dei tanti preti di frontiera negli ospedali d’Italia va in questa direzione.
Tanti, troppi decessi
Sono numerosi i preti che muoiono a causa del coronavirus e che lasciano dietro di sé uno sgomento profondo. Toglie il fiato vedere morire i sacerdoti impegnati alla cura delle anima nella prima linea di lotta al virus. A oggi sono cinquanta i ministri deceduti: 50 volti di storie dense, colme di missione e servizio alla Chiesa di Cristo. Si aggiungano, poi, le tante suore, i diaconi e collaboratori che, per modi che la ricerca scientifica verificherà, sono entrati a contatto con il virus micidiale. Due giorni fa Papa Francesco ha voluto ricordare le suore impegnate nei servizi assistenziali: una vera e propria sfida, quando per tante di loro anche una pacca sulla spalla può essere fatale. Ma il coronavirus non ammette deroghe alla Carità. È, anzi, l’esempio indefesso di tante donne e altrettanti uomini di Dio a mostrare all’uomo la vicinanza del Padre, perché nessuno è solo. Oggi più che mai, nella paura vissuta quotidianamente, risuona più che mai la voce di Cristo, “Che ha vinto la morte“.
Don Luigi, prete in corsia
Con questa speranza nel cuore don Luigi continua a portare speranza all’Ospedale del Mare. Ha una certa esperienza nella pastorale di frontiera, avendo vissuto l’emergenza degli sbarchi degli Albanesi in Puglia e il dramma di chi si è trovato senza una casa a L’Aquila. Oggi, integrato in quel nosocomio divenuto casa sua, celebra l’Eucarestia e conforta ammalati e operatori sanitari. Perché “è impossibile – dice – morire senza speranza”.
Don Luigi, com’è nata la sua vocazione?
“La mia vocazione è quella di stare accanto ai malati e lo faccio da diciassette anni. Ormai sono integrato all’interno della struttura dell’ospedale. Sono abituato a tanti tipi di emergenza: sono stato in Puglia al tempo degli sbarchi albanesi, poi a L’Aquila, in Emilia-Romagna e in tante altre missioni umanitarie. Questa è, però, completamente diversa ed è tutto nuovo: dobbiamo imparare come affrontarla”.
E come la affronta adesso?
“Il nostro compito è stare vicino agli ammalati, ma anche al personale sanitario. Molti di loro mi chiedono di confessarli, si pongono problemi etici mai affrontati finora. Anche il rapporto con gli ammalati è cambiato. Adesso molti di loro non chiedono – come succedeva prima – i sacramenti nell’ultima ora: chiedono di pregare con loro. È una richiesta forte, un segno di speranza”.
Cosa le chiedono i medici o gli infermieri, invece?
“Prima si discuteva di argomenti etici più in generale. Oggi, molti di loro mi chiedono come si faccia a scegliere di salvare uno piuttosto che un altro. In tanti medici mi domandano chi attaccare a un respiratore, per esempio. Vedo tanta necessità di capire di comportarsi in una situazione che è complessa. È un’esigenza dello spirito”.
A chi va il suo primo pensiero?
“Ai malati del Nord-Italia, quelli più colpiti da questo terribile virus, ai medici, agli infermieri e ai sacerdoti che hanno offerto la loro vita. L’operatore sanitario non sa chi gli capiterà davanti, eppure sceglie di dedicare la vita a chi soffre. Loro tutti hanno scelto di offrirsi”.
In questo scenario, mi viene da chiederle: dov’è Dio?
“Dio è accanto agli ammalati, attraverso noi cappellani. Il Padre li assiste li accompagna, soffre insieme con loro. Mi sovviene il ricordo di qualche giorno fa, quando una persona dell’Ospedale del Mare è stata trasferita all’Ospedale di Cotugno, dove ci sono i ricoverati per Covid-19. Quando ha saputo l’esito positivo del tampone, quest’uomo mi ha guardato e si è messo a piangere. Poi si è rivolto a me chiedendomi: ‘Ma al Cotugno sarò solo? Qui siete stati la mia famiglia…’. Ecco dov’è Dio, in quegli uomini e donne che sono vicini ai sofferenti e tolgono loro l’ombra della solitudine”.
È cambiata la sua vita da cappellano di ospedale?
“Noi cappellani siamo sempre stati in prima linea al servizio dei malati e degli operatori sanitari. Costruiamo rapporti con le persone e ora siamo come i medici, che devono studiare una nuova malattia. La prima cosa che ho fatto quando l’emergenza si è aggravata, è stato creare la pagina Facebook Pastorale della Salute ai tempi del Coronavirus. È uno spazio pensato per sostenere i miei amici, gli ammalati e dare infomrazioni vere. E poi, celebro la Messa via Facebook: in questo caso, la tecnologia sta dando una grossa mano. Credo che su come ci comporteremo oggi, costruiremo la Chiesa di domani. Una Chiesa senz’altro rinnovata”.