Caso Regeni, la famiglia: “Ci sono zone grigie”

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E'una testimonianza cruda quella dei coniugi Regeni, Claudio e Paola. I genitori di Giulio, il ricercatore italiano ucciso in Egitto nel 2016, hanno riferito davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta, lamentando una eccessiva evanescenza del contributo dell'ambasciatore italiano al Cairo, Carlo Cantini: “Da molto tempo non ci risponde, evidentemente persegue altri obiettivi rispetto a verità e giustizia, mentre porta avanti con successo iniziative su affari e scambi commerciali tra i due Paesi”. Claudio Regeni ha inoltre evidenziato la permanenza di “zone grigie sia dal lato del governo egiziano, recalcitrante da più di un anno perché non collabora come ci si sarebbe aspettato, sia da parte italiana: da molto tempo chiediamo il ritiro dell'ambasciatore che non ci sta riferendo cosa stia facendo”.

“La politica non collabora”

E' una battaglia continua quella dei coniugi Regeni, ormai da quattro anni in attesa di conoscere la verità sulla morte del loro figlio, recatosi al Cairo per completare il suo dottorato di ricerca e lì assassinato (dopo essere stato sottoposto a tortura), in circostanza che tuttora continuano a restare oscure: “Abbiamo scoperto che Giulio era stato torturato leggendo i giornali – ha detto la madre di Giulio, Paola Deffendi -. Non ci era stato riferito dall'ambasciata per una sorta di tutela nei nostri confronti ed è stata una super-botta per noi”. Ed è ancora la signora Regeni a rivolgere un appello alla Commissione, nella quale la famiglia di Giulio ripone “l'aspettativa che voi smuoviate la politica. Se la politica non collabora a costruire un certo quadro, la procura di Roma non può andare avanti”. Bisogna “scegliere da che parte stare”.

La notizia delle torture

Alla voce di Claudio Regeni è affidata la ricostruzione di quanto accadde la sera del 31 gennaio 2016, quando “l'ambasciatore Massari ci conferma di aver incontrato il ministro dell'Interno egiziano senza aver avuto informazioni utili sulla scomparsa di Giulio. Anzi, ci dice che il ministro aveva avuto nei suoi confronti un atteggiamento non collaborativo e sprezzante. Per questo era giusto dare alla stampa la notizia della scomparsa di Giulio. L'avrebbe data lui stesso, ma noi avremmo dovuto avvisare i nostri parenti”. Sulla notizia delle torture subite dal ricercatore, apprese in ritardo dalla famiglia, Paola Deffendi spiega che forse non furono le autorità italiane a riferirla “per una sorta di tutela, per non farci soffrire, ma nell'epoca dell'informazione, fake news a parte, tutto si viene a sapere. Giulio era andato al Cairo come ricercatore, non perché gli piaceva girare al Cairo per bancarelle. Doveva essere un approfondimento sul campo di una ricerca molto più ampia, storico-sindacale. L'Egitto doveva essere un focus come quello sui sindacati, sia quelli indipendenti sia quelli filo governativi. La sua ricerca era più ampia di quella che la stampa ha pensato di evidenziare”.

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